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Take Care: istruzioni per l'uso. Il metodo Scarponi

  • Pubblicato il: 14/11/2016 - 21:30
Autore/i: 
Rubrica: 
CULTURA E WELFARE
Articolo a cura di: 
Elisa Fulco

Sta per concludersi, il 27 Novembre, la Biennale di Architettura di Venezia, Reporting from The Front, la cui proposta curatoriale di Alejandro Aravena è affidata al racconto delle pratiche abitative adottate  internazionalmente per affrontare povertà, flussi migratori, aumento, invecchiamento della popolazione e crescita delle periferie. Ugualmente, il lavoro di Antonio Scarponi, ospite del Padiglione Italia, dal titolo programmatico Taking Care e curato da Tam Associati, si inserisce nel racconto discorsivo e “parlato” dell’architettura come pratica in grado di rendere il cambiamento a portata di mano. I suoi dispositivi concettuali e spaziali, in bilico tra arte, design e architettura, trasmettono la fiducia nella possibilità di “abilitare” il pensiero degli altri, suggerendo non nuovi prodotti ma racconti diversi per trasformare creativamente quello che esiste già. E stato il primo vincitore del Curry Stone Design Prize della Curry Stone Foundation che annualmente premia i migliori progetti di 'innovazione sociale


Dispositivo è la parola chiave del tuo progettare, sorta di diagramma in cui si inseriscono esperienze diverse. Che cosa intendi esattamente per dispositivo e qual è la scala a cui si applica?
Ogni oggetto, che per natura intreccia relazioni tra gli individui, può essere inteso come dispositivo. L'aratro, la ruota, l'ascia, per fare un esempio, sono anch' essi dispositivi, macchine elementari,  che rispondono al bisogno ancestrale di modificare, manipolare, migliorare, anche in modo simbolico, l’ambiente, la società e il rapporto tra le cose e le persone. Caratteristica del dispositivo è la sua riproducibilità, sia in termini industriali, di prodotto, che di pratica.  Progettare per “dispositivi” implica il disegnare forme vive, capaci di modificare il rapporto tra le persone e le cose, come avviene nel design, o tra l'ambiente costruito e le persone, come nel caso della città, del paesaggio e del territorio. La scala del dispositivo non è importante, quello che conta è l’impatto che genera, partendo dalla risoluzione di un problema specifico, che agisce sempre su un’area di influenza più grande, in grado di cambiare queste le relazioni.
Un dispositivo massimizza il rapporto tra la forma e gli effetti che essa produce. Quando dico che il dispositivo è una forma, non mi riferisco necessariamente ad una forma costruita, fisica, può essere anche un racconto, dunque una forma immateriale. Un racconto che però ci permette di guardare al mondo in modo nuovo e che cambia il nostro rapporto con esso. Il mio lavoro disegna, e talvolta costruisce questo racconto. 

Per la Biennale hai realizzato un’architettura mobile, un dispositivo, Campo Libero.  Come nasce e che cosa racconta?
Campo Libero è un presidio territoriale, progettato per l’Associazione Libera, per la riattivazione di campi confiscati alla mafia e come punto di informazione e di aggregazione attorno al quale costruire la cultura della legalità (1). (Per me è stata l'occasione per immaginare un’architettura autosufficiente, staccata dalla rete energetica, e capace di dialogare in modo dolce e lirico con il paesaggio, riscattando anche visivamente la campagna meridionale. Da un certo punto di vista rappresenta un interessante principio insediativo e un nuovo modo di occupare il territorio. Questo tipo di riflessione può trovare molte altre applicazioni in contesti di emergenza in cui è necessario progettare architetture temporanee, capaci di dare risposte veloci a nuove esigenze abitative. Basti pensare al tema dell’immigrazione. La mia ipotesi è che l'emergenza deve essere affrontata per potere generare innovazione. Per realizzare Campo Libero è in corso una campagna di crowdfunding (www.periferieinazione.it), che  mira a finanziare i progetti proposti nel Padiglione Italia, ognuno dei quali rappresenta la risposta e la risoluzione ad un problema specifico (sanità, educazione, cultura della legalità).

Molti dei tuoi progetti sono pratiche di riuso, di rigenerazione degli spazi, in cui spesso è centrale il tema della produzione del cibo in casa e in spazi di risulta. Che tipo di riflessione c’è dietro questo interesse? 
La modernità è stata la prima epoca storica spinta dal grande mito del progresso, dell'innovazione, e della crescita continua. Culturalmente, questa idea di futuro si è esaurita. Non tutto si può innovare. Ci sono delle costanti non-innovabili che si esprimono per esempio nel  bisogno di "abitare"e in quelle pratiche, anche rituali, che intercorrono tra la nascita e la morte: lavorare, giocare, dormire, nutrirsi, fare l'amore. Il mio lavoro è un po’ come un lavoro di editing. Basta una virgola, una preposizione e il senso del testo cambia. Con i miei progetti cerco di riscattare il presente, cambiando una virgola ad un testo già scritto che ha smesso di avere senso compiuto.
Per me il raddoppiamento della popolazione negli ultimi trent’anni, da 3.5 a 7.5 miliardi, è un dato affascinante che introduce inevitabilmente il tema dell'urbanità e delle risorse alimentari ed energetiche. Se è vero che metà della popolazione mondiale vive in aree urbanizzate, mi interessa capire come è possibile rendere le città produttive e resilienti dal punto di vista alimentare. Dalla riflessione sulla produzione del cibo in città, che comporta la risoluzione di una serie di problemi e di accorgimenti spaziali precisi, sono partite le mie esperienze sul campo. A Basilea ho progettato la prima serra aquaponica d'Europa su di un tetto industriale, da cui sono scaturiti altri dispositivi (2). Hedron, per esempio è una cupola geodesica che cresce fino a dieci chilogrammi di cibo al giorno in meno di venticinque metri quadri. Malthus invece ottimizza la capacita massima di produzione di cibo in un ambientante domestico: un pasto al giorno (200 grammi di pesce e una porzione di insalata), sino a Farm-X, che invece è un vero e proprio tipo edilizio in grado di produrre fino a cinque tonnellate di cibo fresco al giorno in mille metri quadri. Mi piace ripetere che con la agricoltura urbana prima degli ortaggi si cresce la città, come valore socio-economico. Ancora una volta l'agricoltura urbana è per me un dispositivo per raccontare, concretamente, una nuova forma di città, per stabilire un nuovo rapporto tra le persone e le cose. In questo caso il cibo. Riflettendo sulla necessità di riattivare e ottimizzare spazi industriali  ho invece  progettato Hotello, una sorta di stanza portatile e richiudibile in un baule, concepito come un dispositivo scenico che permette di occupare gli spazi in modo temporaneo e di dividerli in maniera reversibile. 

La tua ricerca prosegue la via tracciata da Enzo Mari, Bruno Munari, Achille Castiglioni,  il design che non insiste sulla magia del prodotto ma sul processo, sul percorso che ha guidato al risultato. Non a caso dai spesso le istruzioni.
Inseguo una idea di design narrativa. Un idea di design “indipendente” dalla materia. Che paradossalmente potrebbe anche non “esistere”, in senso fisico, proprio come una poesia. Cerco di spingere questa idea agli estremi, realizzando diversi progetti che sono solo “istruzioni”, che esistono solo se si decide di costruirli. Il libro ELIOOO racconta esattamente questa storia (3). E' una narrazione che insegna ad ogni individuo a crescere cibo in casa con sistemi idroponici per mezzo di pezzi distribuiti da IKEA. Di fatto è un dispositivo che trasforma le persone in costruttori di una idea, da un lato, e dall'altro trasforma IKEA in un distributore di pezzi di ricambio, di un prodotto che non esiste. L'idea di fondo è che non serve un nuovo prodotto, o un nuovo oggetto. Piuttosto mi interessa trovare una nuova storia per trasformare quello che già c'è intorno a noi e metterlo a sistema. 

Istruzioni per riusare e riciclare. L'utente finale come costruttore e produttore di un tuo progetto. Che valore dai a questa forma di progettazione?
Per Readikea, un progetto di allestimento per una mostra al Cabaret Voltaire che si intitolava “Revolution to Smash Global Capitalism”, ho disegnato un manuale di istruzioni, in modo tale che la mostra potesse all'occorrenza essere replicata in altri luoghi, di fatto utilizzando solo  scatole IKEA (il Trofast) con le quali ho realizzato tutto: librerie, tavoli, sedie, un letto, lampade. Da questa esperienza è nato poi ELIOOO. Con alcune scatole rimaste ho realizzato una installazione idroponica fertilizzata dalle mie stesse urine, creando un ciclo chiuso tra quello che produco e quello che consumo. La cosa può sembrare scandalosa ma in realtà non lo è. Di urine ne servono dosi omeopatiche. E' incolore, inodore, ed è pure una pratica avvallata dal World Health Organization. Però il suo utilizzo crea un corto-circuito concettuale. Questo corto-circuito è il valore che do a questa forma di progettazione. Progetto a ciclo chiuso.

Taking care è il tema del Padiglione Italia,  in che modo il prendersi cura entra nel tuo modo di progettare?
Credo che al mio lavoro si addica meglio l'espressionetake care, come raccomandazione, piuttosto che taking care”.  In fondo, in tutti i miei progetti c’è un invito concreto a prendersi cura di sé, del proprio ambiente, quasi un monito nel ricordare che non c’è nessuno che si occuperà di noi. L’idea di welfare novecentesca non esiste più, l’obiettivo del dispositivo per come lo intendo io è quello di costruire un’idea e realizzarla, o di  innescare pratiche virtuose, sostenibili, resilienti, rendendole sexy e piacevoli, di fatto abilitando il pensiero degli altri attraverso il racconto del progetto. Creare valore da questa esperienza, e renderla a portata di mano (4). 

Tutti i temi della tua ricerca sono sempre affrontati con una precisa chiave estetica. Una sorta di poesia concreta, in cui l’arte e la bellezza sono parte fondante sia nella costruzione che nella restituzione.
Compito dell’arte e del design è quello di dare una forma visiva alla consapevolezza,  di generare innovazione sociale, attivando le persone, abilitando il pensiero, anche in assenza di un  vero e proprio prodotto in senso tradizionale. Mi interessa l'arte come forma di sovversione immaginaria, come  pratica che immagina la realtà distribuita sotto diverse forme di valore, anche solo simbolico. Da un certo punto di vista, l'architettura e il design hanno lo stesso potere sovversivo, vincolato però da una necessaria concretezza, che obbliga alla relazione con l'altro, in cui la poesia “sporcandosi” e compromettendosi, acquista potenza.

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Antonio Scarponi (Rimini, 1974), è il fondatore dello studio zurighese Conceptual Devices (www.conceptualdevices.com). Ha studiato architettura alla Cooper Union di New York  Ie allo UAV di Venezia, dove ha conseguito un Dottorato di ricerca in Urbanistica. Nel 2009 ha conseguito il Curry Stone Design Prize. Nel 2016 ha preso parte al Padiglione Italia alla Biennale di Architettura di Venezia. E' autore di ELIOOO, un manuale di agricoltura urbana idroponica, realizzabile per mezzo di pezzi prodotti da Ikea (www.eliooo.com). 

Ph | Antonio Scarponi, Campo Libero, disegno di studio (2016).