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Senza di te lo sviluppo sostenibile non c’è

  • Pubblicato il: 15/04/2018 - 09:06
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Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Catterina Seia

Il 22 maggio, all’Auditorium del Maxxi, l’ASviS aprirà la seconda edizione del Festival dello Sviluppo Sostenibile per discutere sul futuro dell’Europa. Il programma ha già oltre 280 eventi che si svolgeranno in 17 giorni, pari al numero dei goal dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. Ne parliamo con Enrico Giovannini, portavoce di ASviS, l’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile. Quale ruolo gioca la Cultura?
 


 
A settembre 2015, l’Onu vara l’Agenda globale per lo sviluppo sostenibile. A febbraio 2016 l’Università Tor Vergata di Roma con Fondazione Unipolis dà il via a una piattaforma di lavoro per realizzare i 17 goal dell’Agenda 2030, ASVIS, l’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile,  di cui è portavoce l’economista Enrico Giovannini, con il quale conversiamo. Docente all’ateneo romano, già presidente Istat e Ministro del lavoro e delle politiche sociali del governo Letta ha creato con ASviS un grande progetto partecipato. L’Alleanza riunisce oggi oltre 180 tra le più importanti istituzioni, imprese e reti della società civile mobilitate per realizzare gli obiettivi di sviluppo sostenibile.
  
Nel suo libro “
L’utopia sostenibile”, già in ristampa, Giovannini traccia il percorso del paese verso nuove logiche di sviluppo. Non si tratta di un libro dei sogni, ma analisi con proposte concrete. Alla viglia della seconda edizione del Festival dello Sviluppo Sostenibile, appuntamento internazionale che durerà 17 giorni, tanti quanti i goal individuati,  può anticiparci  quali messaggi veicolerete? Crescono gli alleati, nel mondo delle imprese come fortunatamente oggi anche dal mondo della filantropia. C’è tantissimo fermento. Anche grazie al lavoro dell’ASviS, sempre più diverse parti della società italiana stanno adottando l’Agenda 2030 come punto di riferimento.
 
I punti sono fondamentalmente tre.
L’Agenda 2030 sta diventa a livello europeo e internazionale, con eccezioni come gli Stati Uniti, un riferimento comune di tantissime politiche, all’interno di un assetto di governance integrata. Tra l’altro contribuiremo al paper che la Commissione Europea farà a ottobre con le indicazioni sull’inserimento degli obiettivi dell’Agenda 2030 in tutte le politiche europee. Questo documento sarà fondamentale anche considerando il fatto che dopo le elezioni europee del prossimo anno dovrà essere definito il  quadro finanziario a lungo termine, con gli stanziamenti dei fondi strutturali.
Secondo messaggio, l’Italia, dopo un’iniziale disattenzione all’Agenda 2030, si sta muovendo intensamente su questi fronti soprattutto a livello di imprese- che adottano gli obiettivi di sviluppo sostenibile nei loro piani strategici, come indicato nel Manifesto Confindustria, a livello di sindacati - come nel piano per l’Italia sostenibile di CGIL- e di società civile, del mondo della scuola e dell’università.
Però, nonostante tutto questo movimento dal basso, abbiamo bisogno di importanti decisioni politiche. Ed ecco il terzo punto. La nuova legislatura dovrà lavorare sullo sviluppo sostenibile oppure condannerà l’Italia a star fuori dai grandi processi di trasformazione. Quindi il prossimo Festival italiano dello sviluppo sostenibile (22 maggio – 7 giugno) è l’occasione per mostrare che cosa sta accadendo a livello internazionale, contribuire alla discussione europea e scuotere la politica, mostrando che l’Italia - dal basso - si sta muovendo.
 
Avete raccolto le azioni diffuse a livello nazionale con la campagna “What are you doing?”…
 

La  campagna del Festival ha come slogan “senza di te lo sviluppo sostenibile non c’è” e a partire dalla prossima settimana verranno avviate molte iniziative, tutte raccontate attraverso il sito www.festivalsvilupposostenibile.it.
 
Occorreva l’Università Tor Vergata, con l’appoggio della Fondazione Unipolis (fondazione privata d’impresa) per ideare una piattaforma come ASviS? Cosa avete appreso da questo modello nei due anni di attività?
 

L’intuizione iniziale era coerente con il primo principio dell’Agenda 2030 che richiede l’universalità dell’impegno per il cambiamento, non solo nel senso che tutti i paesi devono fare la loro parte, ma che vanno coinvolte tutte le componenti di un paese, non solo quella pubblica ma anche quella privata, la società civile e così via. Da questo discende il secondo principio, cioè la partecipazione. L’idea di lanciare ASviS insieme ad un soggetto come Unipolis, rappresentativo di un gruppo finanziario-assicurativo che però viene da una forte tradizione di cooperazione, è stata vincente e ha dimostrato che la società civile italiana aveva voglia di collaborare molto più di quello che si immaginava. Non dimentichiamo che in quei mesi c’era una polemica tra la società civile e il Presidente del Consiglio che sosteneva che i cosiddetti “corpi intermedi” dovevano rinnovarsi, cambiare profondamente. Sono certo che al di là del potere unificante dell’Agenda 2030 molte organizzazioni abbiano risposto al nostro invito proprio per dimostrare la forza e la coesione della società civile italiana. In questi due anni, sull’Agenda 2030 ASviS rappresentato un modello di integrazione tra realtà molto diverse tra loro che hanno scoperto il valore di lavorare insieme.
 
Un modello di lavoro su temi ipercomplessi, a partire dallo sviluppo sostenibile che è il frame della trasformazione culturale sulle grandi sfide dell’umanità.

Due sono gli aspetti principali. L’Agenda 2030 è stata il frutto di una negoziazione di due anni tra i governi e quindi è il risultato di una mediazione, non omnicomprensivo ma ben strutturato, nella quale ognuno ha trovato la propria collocazione. Un’agenda che include e mostra le connessioni, anche operative tra i diversi soggetti. Un esempio: il Forum del Terzo Settore ha chiesto ai propri associati di riclassificare le attività svolte secondo i target dell’Agenda; la richiesta che poteva essere intesa come un peso burocratico è stata invece accolta con una grande  partecipazione,  una scoperta di senso, una rottura rispetto alla routine, un modo per confrontarsi con la propria eredità storica e con altri soggetti.
Secondo aspetto: in AsviS abbiamo soggetti che storicamente hanno posizioni diverse su molti temi. Pensiamo al mondo ambientalista, oppure al mondo della produzione e del lavoro come Confindustria, Confcommercio  con i  sindacati CGIL, CISL e UIL. In questi due anni ASviS non è stata invadente rispetto ai suoi componenti, ma ha rappresentato un valore aggiunto. Aver scelto di non costituire una onlus, ad esempio, e quindi di non accedere a donazioni provenienti da persone singole, ha mostrato come non avremmo fatto concorrenza a tanti associati che ricevono tali contributi. Analogamente, abbiamo cercato di evitare di duplicare le attività già svolte dai singoli aderenti e di coinvolgere tutti: ad esempio, il rapporto che pubblichiamo ogni anno con il contributo di 300 esperti che lavorano nei vari gruppi di lavoro viene inviato a tutte le associazioni prima della pubblicazione, affinchè sia un prodotto collettivo che accolga i diversi punti di vista.  E’ un processo rispettoso dei vari punti di vista, costruito sul lavoro comune.

Il nostro giornale riflette sui cambiamenti della cultura attraverso la cultura. Non vedo però il mondo della Cultura strategicamente in campo su questi temi.
 

Dipende da che cosa intendiamo per Cultura. Facciamo un passo indietro. Si è molto discusso dell’assenza, nell’ambito dei Sustainable development goals, di un obiettivo sulla Cultura. Immagino che tale scelta sia derivata dalla impossibilità di mettere d’accordo sul concetto di cultura 193 paesi di tutto il mondo. Ma il tema della Cultura attraversa trasversalmente tantissimi goals. Tanti dei nostri aderenti, come Ask Bocconi, Fondazione Feltrinelli, Italia Nostra, la stessa fondazione Unipolis lavorano su tematiche culturali e all’interno dell’ASviS abbiamo molti soggetti legati a diverse culture politiche, dalla Fondazione Sturzo alla Basso, solo per citarne alcune. Peraltro, proprio nel corso del Festival affronteremo, in un evento dedicato, il ruolo della cultura per lo sviluppo sostenibile.
 
Un lavoro di cambiamento culturale che va ben oltre una mostra di ricerca sul cambiamento climatico,  ma implica un lavoro di continuità, nell’engagement,  nella mobilitazione nella coproduzione di senso, come lei diceva, nel coinvolgimento delle comunità, dalle istituzioni educative alle famiglie, dalle imprese agli altri  soggetti della società civile.
 
Trova nel mio libro il riferimento ai tre elementi che a mio parere determinano la possibilità di portare il nostro mondo su un sentiero di sviluppo sostenibile: le tecnologie, la governance e il cambiamento culturale, di mentalità.
 
L’approdo della finanza di impatto sarà un aiuto in questa trasformazione?
 
La finanza è uno strumento per coniugare e legare l’oggi con il domani. La finanza serve, cioè, a realizzare idee, per realizzare cose che non esistono oggi, investendo sul futuro, in un’ottica di ben-essere collettivo. La finanza è il ponte tra l’oggi e il domani. Il fatto che abbiamo dovuto introdurre il concetto della finanza d’impatto vuol dire che da un po’ di tempo ci siamo dimenticati il ruolo della finanza per lo sviluppo delle persone e delle società. E’ uno dei frutti della scelta, sbagliata, di aver concentrato tutte le nostre energie sulla massimizzazione del PIL, che resta un elemento fondamentale, ma non unico, dello sviluppo, in quanto coglie soltanto un pezzo della realtà e porta ad orientare le scelte usando un’ottica di brevissimo termine. Si pensi all’ossessione per i risultati trimestrali delle grande imprese. Si tratta di uno shortermismo sbagliato, che, coniugato con meccanismi di bonus dei manager, ha determinato risultati aberranti.
 
Ora, il fatto che nascano iniziative di finanza che guardano al social impact è un segnale molto importante, ma non bisogna sottovalutare le scelte della finanza “normale”, chiamiamola così, che si sta anch’essa occupando dei temi dello sviluppo sostenibile. Recentemente, l’annuncio dell’amministratore delegato di Black Rock indirizzata ai vertici delle imprese sul pre-requisito delle strategie di sostenibilità per dialogare con il fondo ha fatto scalpore. Analoga decisione, qualche anno fa, del fondo sovrano norvegese non aveva generato effetti analoghi nell’opinione pubblica. Oggi la finanza va in questa direzione ed è un’ottima notizia, come dico nelle mie conferenze, ma anche una pessima notizia, perché se anche la finanza “normale” si preoccupa della sostenibilità dei propri investimenti vuol dire che il rischio di collasso è molto vicino.
 
Lei richiama spesso l’allarme, inascoltato, lanciato dal Club di Roma nel 1972 sui temi dello sviluppo sostenibile. Anche la crisi finanziaria che abbiamo vissuto si è segnalata come il mare che arretra nello tsunami. Segnali tangibili che abbiamo voluto ignorare.
 
Il Fondo Monetario Internazionale nelle previsioni dei giorni scorsi ha lanciato un monito ai Governi su un’altra possibile crisi finanziaria. Siamo entrati in un’epoca di grandi instabilità ambientali, economiche, sociali e istituzionali, la quarta gamba dello sviluppo sostenibile. Per questo abbiamo l’urgenza di intervenire e la necessità di cambiare mentalità e modello di sviluppo perché le non linearità (cioè i cambiamenti improvvisi e radicali) diventeranno il nostro pane quotidiano. Nel libro provo ad argomentare su come sia necessario ripensare alle politiche in questi contesti. Un esempio per tutti: se pensiamo di far ripartire l’economia mettendo in tasca i soldi ai consumatori, siano essi 80 euro o altro, non risolviamo nulla. Dobbiamo guardare a un futuro che sarà pieno di shock e costruire politiche che favoriscano la resilienza delle persone, dell’ambiente, delle imprese e della società. Macron alcuni giorni fa al Parlamento europeo parlava del rischio di una guerra civile nel continente. Dobbiamo decidere se vogliamo attendere inermi o diventare subito agenti del cambiamento. Da domani mattina. A ogni livello.
 
Catterina Seia
 
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