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Rideterminare i confini dell’intervento pubblico

  • Pubblicato il: 25/10/2013 - 15:34
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Filippo Cavazzoni

Rideterminare i confini dell’intervento pubblico. È questo il primo e più urgente nodo da affrontare per avere un nuovo sistema di governo dei beni culturali. Attualmente l’ambito di intervento del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo (Mibact) è troppo esteso. La sua stessa struttura organizzativa – centrale e periferica – è infatti volta a esercitare un duplice ruolo: di controllo e di gestione attiva. Tuttavia l’amministrazione di migliaia di «luoghi di cultura» sparsi su tutto il territorio è più che altro incentrata sulla mera conservazione. La stessa preparazione di direttori regionali, soprintendenti e funzionari è orientata alle funzioni di tutela del patrimonio.
Oggi più che mai, musei, siti archeologici, ecc. rappresentano realtà complesse, che necessitano di una conduzione che abbracci una pluralità di discipline. La rigidità e la forte centralizzazione del sistema attuale scoraggiano forme di gestione capaci di intercettare una nuova domanda e di modellarsi sulle specificità dei singoli «luoghi di cultura». La scarsa o pressoché nulla autonomia dei siti statali è l’emblema di tale «cristallizzazione».
Più è ampio il ruolo ritagliato per se stesso dal settore pubblico, meno spazio vi è per l’apporto di altri soggetti: associazioni, fondazioni, imprese, privati cittadini e altri ancora. L’insistenza verso forme di coinvolgimento dei privati attraverso sponsorizzazioni ed erogazioni liberali non tiene in dovuta considerazione i limiti di tali strumenti. Il mecenatismo culturale è frenato da una insufficiente convenienza fiscale, da procedure burocratiche farraginose e da una mancata visibilità per il donatore. Le sponsorizzazioni, che invece danno un ritorno di immagine, riducono il soggetto privato a un semplice finanziatore di iniziative riguardanti i beni culturali. Anche la cosiddetta sponsorizzazione tecnica non fa uscire il privato dal ruolo di mero esecutore.
Lo stesso problema si è riscontrato nell’apertura a soggetti privati della gestione dei servizi al pubblico. Anche qui, l’impossibilità di avere una autonomia progettuale ed esecutiva ha depotenziato tale innovazione.
Alla luce di questi fatti velocemente enunciati, il ruolo di soggetti no profit e for profit rimane residuale, andando a completare l’intervento del settore pubblico, che, oltre ad avere il monopolio della tutela, ha in mano anche l’amministrazione attiva dei beni culturali.
Ridisegnare il perimetro dell’intervento pubblico significa «razionalizzarne» i compiti: dal momento che sia la normativa che l’attuale configurazione del Mibact sono orientate maggiormente verso un saldo controllo ed esercizio della tutela, gli spazi per soggetti «altri» dovrebbero aprirsi nel campo della gestione e della valorizzazione.
Con lo strumento della fondazione si è cercato di andare in tale direzione, dando così autonomia finanziaria e amministrativa all’ente preposto alla conduzione del sito culturale e aprendo i consigli di amministrazione all’apporto dei privati. Perché dai soggetti privati è possibile ottenere, non solo risorse economiche, ma anche competenze manageriali utili a instradare gestioni virtuose.
Si tratta di esperienze fatte di luci e ombre, con una trasformazione della natura giuridica che molte volte ha portato a «privatizzazioni» solamente nominali o di facciata, oppure con una diffusione di tale strumento ancora troppo limitata nell’ambito dei musei statali, derivante anche dalle conseguenze sullo statuto giuridico del personale assegnato al museo. Il ricorso alla fondazione ha comunque consentito di fare un passo avanti rispetto al museo statale come «ufficio periferico» del Mibact.
L’altra via è quella di affidare a soggetti privati, sia del terzo settore che del mondo dell’impresa, la gestione del bene culturale nella sua unitarietà. Naturalmente si parla di una «privatizzazione» della conduzione e non della proprietà - pur non escludendo però, in alcuni casi, la stessa privatizzazione della proprietà. Si tratterebbe indubbiamente del modo migliore per dare dinamicità e nuove prospettive al settore.
Avanzare timide riforme che non puntano a spostare dalle mani pubbliche la gestione dei beni culturali, ma a ritoccare il sistema esistente appare infatti un esercizio scarsamente risolutivo. Per dirla col premio Nobel Milton Friedman: «Che cosa pensereste di chi dicesse: Vorrei un gatto, ma che abbaiasse?». Le leggi biologiche che definiscono le caratteristiche dei gatti non sono poi tanto più rigide delle leggi che definiscono il comportamento del settore pubblico.

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Filippo Cavazzoni è direttore Editoriale dell’Istituto Bruno Leoni