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Ricercare per il futuro

  • Pubblicato il: 10/10/2016 - 16:00
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SPECIALI
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Redazione

SPECIALE LUBEC 2016. Il mondo della Ricerca sta contribuendo in modo consistente al processo di innovazione in atto sia per quanto riguarda la divulgazione delle conoscenze che per le opportunità offerte al settore delle imprese. Il nostro Paese ha oggi bisogno di innovazione culturale, politica e soprattutto metodologica con possibilità di sperimentazioni continue e con aperture mentali che aiutino a superare diffidenze, concezioni personalistiche e ogni altra limitazione che può nuocere al raggiungimento di obiettivi e traguardi condivisi. E dobbiamo comprendere cosa significhi realmente la relazione tra pubblico e privato.  Ecco l’analisi di Daniele Malfitana, Direttore di IBAM-CNR, che interverrà al LuBec nel Technolab del 14 ottobre

 
I numerosi appelli lanciati in questi ultimi mesi dalla comunità scientifica, nazionale ed internazionale, sull’esigenza di “investire in cultura”, “investire in ricerca”, “investire sul capitale umano”, offrono un segnale evidente di quanto sia necessario e non più procrastinabile intraprendere un reale percorso di innovazione, culturale ed occupazionale.
 
Il patrimonio culturale, materiale ed immateriale, del nostro Paese non può, tuttavia, assumere un ruolo determinante e strategico di crescita, se non ci si affretta a cogliere le potenzialità di un reale investimento nella ricerca, nella consapevolezza dei risultati di eccellenza che questo porterebbe se solo le centinaia di giovani ricercatori, attivi nelle università e nei centri di ricerca presenti in Italia, fossero incentivate e meglio supportate.
 
La sinergia, scientifica e di ricerca, tra Istituzioni diverse ha dato inizio ad attività i cui risultati sono immediatamente spendibili sui nostri territori, sia in termini di prodotti di conoscenza, che in termini "occupazionali". Questo perché la ricerca, anche quella sui beni culturali su cui grava ancora qualche pregiudizio, può davvero consentire di cogliere problemi e disegnare linee di intervento sulle quali articolare nuovi percorsi di crescita e sviluppo. Tutto ciò, a patto, però, che i diversi attori, non solo quelli che operano nel settore dei beni culturali, si mettano a dialogare.
 
Cito come esempio più diretto, perché è il settore in cui sono impegnato in prima persona, quello dell'archeologia. Tutti noi sappiamo oggi che non è più possibile procrastinare il dialogo tra le diverse archeologie (preistorica, classica, medievale, ma anche industriale, moderna e contemporanea, scaturite dalle ricerche di archeologia urbana che tanto hanno contribuito alla conoscenza delle nostre città) e le multiformi conoscenze che ruotano attorno ad esse: è solo da questo dialogo che sarà possibile individuare strategie adeguate per restituire un senso ai luoghi, alle nostre città, trasformando in risorse attive tutte le testimonianze, passate e moderne che ci stanno intorno. È allora superfluo ribadire che il potenziale della ricerca di un Paese incide fortemente sulla competitività, sulla produzione di innovazione (anche gestionale) e soprattutto sulla capacità di rispondere in maniera adeguata a bisogni ed esigenze non solo dei semplici cittadini, ma della grande comunità globale.
 
Oggi si parla tanto di innovazione nel campo dei beni culturali. Ma spesso facciamo confusione perché pensiamo che innovazione significhi sic et simpliciter far uso di tecnologie sofisticatissime, tendenti a sbalordire chi osserva. Si, forse, è anche questo. Ma il nostro Paese ha oggi bisogno di innovazione culturale, politica e soprattutto metodologica con possibilità di sperimentazioni continue e con aperture mentali che aiutino a superare diffidenze, concezioni personalistiche e ogni altra limitazione che può nuocere al raggiungimento di obiettivi e traguardi condivisi.
 
Il lungo dibattito che anima il grande settore della “cultura”, nella sua accezione più ampia e più inclusiva pone l’accento su una serie di pilastri fondamentali che reggono l’intera impalcatura: conoscenza, come momento di acquisizione di dati da utilizzare per un avanzamento della cultura stessa; politica, come sistema in grado di produrre indirizzi strategici e operativi; innovazione, appunto, come modello “mentale” capace di generare crescita, sviluppo; insomma, strumento procedurale per alimentare e sostenere, a sua volta, quel rapporto forte e invalicabile tra ricerca scientifica, sviluppo e crescita tecnologica, sostenibilità e successo economico.
 
Su quest’ultimo tema in particolare, cioè sul ruolo della ricerca come motore di sviluppo e di generazione di conoscenze, che si gioca il futuro della crescita culturale del nostro Paese. E dico questo, ancora una volta come parte in causa, come gestore di ricerca di un Istituto del Cnr che ha come principale missione quella di produrre ricerca specialistica in un settore importante del Paese, il patrimonio culturale. Una ricerca che però non può essere più destinata a rimanere chiusa nelle nostre strutture ma deve necessariamente, se davvero si vuol produrre quella innovazione procedurale di cui parlavo in apertura, uscire fuori, investire la società, investire strati diversi e livelli diversi delle nostre comunità, delle nostre città, etc. È, dunque, nel momento in cui la ricerca diventa sociale che si genera quello spazio aperto su cui tutti siamo chiamati a dare il nostro contributo, ciascuno con le competenze e i ruoli che detiene. Tutti, appunto, pubblico e privato. Più privato che pubblico. Su questo aspetto che si gioca la nuova sfida per la crescita e per il futuro.
 
Ma torniamo al ruolo che la ricerca può e deve avere oggi. Siamo ormai tutti convinti che non esistano più diverse tipologie di ricerca: di base, applicata, strumentale, finalizzata, etc. Tutte definizioni di comodo nate per precise occasioni. Esiste, invece, una ed una sola ricerca, quella cioè che, al di là di specificità terminologiche, aiuti e sia capace di orientare la conoscenza prodotta in direzioni di obiettivi chiari, certi, concreti, definiti; che sia capace di generare sviluppo e crescita; che sia capace di generare inclusività; che sia capace, soprattutto, di dettare e costruire, pian piano, l’agenda della politica. Di quella politica che, assorbendo stimoli e indirizzi che arrivano proprio dalla ricerca, traduca poi in atti concreti, normativi e legislativi, ciò che effettivamente serve al Paese. Ecco allora che il quadro che si va delineando è sempre più quello di un intreccio tra mondi diversi, tra attori e modelli operativi diversi; di connessioni non più rinviabili che traccino la strada per una crescita consapevole e che fissino obiettivi comuni e condivisi cui tutti dobbiamo mirare. In primo luogo, appunto, chi fa e produce ricerca.
 
Il connubio ricerca scientifica e divulgazione è l’altro aspetto più rilevante che gioca anch’esso, oggi più che nel passato, un ruolo rilevante. Cosa significare divulgare e, soprattutto, come divulgare? Il tema è a sua volta intersecato col ruolo che le tecnologie oggi detengono nel sistema della comunicazione e della articolazione dei percorsi comunicativi. L’attenzione è massima e punta fortemente a enfatizzare, in particolare, la capacità che ciascuno di noi che produce ricerca deve avere nel saper utilizzare le tecnologie e non nell’essere utilizzato, e dunque subire, le tecnologie. E’, allora, questione di metodo. Chiarito e compreso il messaggio che si vuol lanciare, il pubblico che si vuol raggiungere, l’idea che si vuol dare, in una parola, la conoscenza che si vuol trasmettere, ecco che entra in campo l’esperto di comunicazione e divulgazione che sceglierà il modello o il sistema più adatto per attrarre il visitatore, il turista, lo specialista, lo studente delle scuole, a interessarsi del prodotto, a coglierne le peculiarità, a decifrarne i messaggi educativi che si vogliono acquisire. Non esiste, dunque, una generica divulgazione: esistono tante divulgazioni quante sono le tecnologie, quante sono, soprattutto, le conoscenze che a fruitori diversi e a livelli diversi, si vogliono trasmettere.
 
La tecnologia, del resto, andando sempre più a crescere dall’ultimo trentennio in poi con velocità esponenziali che hanno imposto ritmi e cambiamenti continui si è vista più volte costretta a modificare o adattare il proprio rapporto con la scienza e la ricerca. Da qui, la soluzione è semplice. Non può esistere sana e consapevole conoscenza se non esiste solida ricerca alla base. La conoscenza è e rimarrà sempre identica perché essa è frutto della millenaria attività umana. Quello che cambia è il modo in cui questa conoscenza, fortemente arricchita di tecnologie e di saperi è capace di incidere sulla crescita. La ricerca, allora, diventa sempre più condizione necessaria per produrre innovazione sociale, inclusività e soprattutto, innovazione tecnologica per lo sviluppo economico del Paese.
 
Ma chi devono essere gli attori di questo processo? Il pubblico o il privato. Entrambi o uno solamente? Qui si entra nel dibattito costante dell’ultimo ventennio almeno dove il ruolo del privato e il suo rapporto con il pubblico sono stati sempre visti ora pacifici ora conflittuali. Forse la soluzione a tutto ciò potrebbe essere quella di intendere veramente cosa significhi essere “privato”. E la definizione più semplice è che il privato siamo noi, siamo tutti noi privati cittadini che con le nostre attività, con le nostre azioni, con la cultura e le conoscenze che possediamo, con i nostri interessi specifici, interagiamo con il pubblico, cioè ancora una volta, con noi stessi. Un circolo virtuoso di intrecci, dunque. Quale sarà il vantaggio di questa interazione tra pubblici e privati? Semplicemente quello di un ulteriore supporto di crescita delle conoscenze, di innalzamento dei livelli di educazione, di investimento sul capitale umano, insomma di crescita complessiva dei saperi che stanno alla base di quella “società della conoscenza” che rappresenta l’oggi nel quale tutti noi viviamo.
 
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