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RAFFAELE ALBERTO VENTURA: L’ “ANGELO STERMINATORE” DEI DISAGIATI DI CLASSE

  • Pubblicato il: 15/02/2018 - 08:05
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CONSIGLI DI LETTURA
Articolo a cura di: 
Amerigo Nutolo

La Teoria della classe disagiata (Minimum Fax) scava tra le fondamenta dell’industria culturale, decostruisce il suo mito di leva dello sviluppo, tenta una critica del prosumer, del collasso fra apparato della produzione e del consumo, e riscrive la genesi dell’autofagia dei nati fra il ‘78 e oggi – l’Hunger Games sociale della creative class, dei figli della classe media frantumata dalla crisi. Giardino delle Delizie capitaliste, più che pamphlet: la Teoria di Raffaele Alberto Ventura galleggia tra autoironia, apologia, analisi storica-economica, tono saggistico-divulgativo, riferimenti ricercati, stile apodittico, approccio d’inchiesta, ritmo da giallo filosofico, incursioni satiriche, immaginario apocalittico.


La classe disagiata, imbrogliata da chi l’ha fatta illudere che master, lavori gratuiti ecc. l’avrebbero condotta a posizioni chiave della scala sociale, ha atteso invano d’inserirsi in un processo di sviluppo spacciatole per certo e irreversibile, e di realizzare il sogno di autoespressione ed influenza sociale tramite l’esibizione del ruolo intellettuale (segno di status, bene posizionale). A pregiudicarla, anche una tecnologia che avvicina il prezzo delle merci al costo di produzione e così, oltre alla quantità di lavoro necessario, diminuisce il profitto, e riduce la possibilità per molti di reinvestire in beni che generino distinzione. Il risentimento legato all’indifferenziazione sociale, spinge chi non riesce a ascendere e non riesce a non discendere, lentamente, sul trampolino dei radicalismi, fomenta conflitti sociali e tuffi auto-distruttivi. In nuce, è attorno a questo nodo drammatico che gira tutta la Teoria.
 
L’affollarsi di rappresentazioni e figure vòlte a descriverne la classe, la topografia teorica, immaginaria, delle vie che portano al suo disagio, ci disorientano scientificamente, lasciandone indistinti i confini. L’empatia generata dalle narrazioni non basta. Ci si chiede se la Teoria non sia un edificio d’immagini in reciproca risonanza, una casa di specchi narrativi, più adatta all’iconologia filosofica o ai concept comunicativi e trending topics massmediali. “In un certo senso il libro accumula vari tentativi di definire il proprio oggetto”, afferma Ventura, “arrivandovi da strade diverse, vagliando modelli letterari e storici: l’analogia con il nobile decaduto (il conte Mascetti o i personaggi cechoviani), con il proletario crudelmente illuso (Jude l’oscuro o Auguste Langlois), con il borghese (i bancarottieri goldoniani), serve a mostrarci cosa succede quando un individuo, animato da valori socialmente costruiti, è chiamato a prendere decisioni razionali e per qualche ragione non è in grado di farlo. Ogni epoca ha la sua classe disagiata, che reitera i gesti che ha ereditato in un mondo in cui non funzionano più. In demografia si nota una rigidità dei comportamenti, una viscosità. Questa è la storia che racconto, e in una società che cambia in fretta riguarda persone diverse”. E aggiunge: “C’è anche un modo semplice di rispondere alla tua domanda: la classe disagiata oggi è la classe media nella sua dinamica discendente. E se mi chiedi di definire ancora più precisamente, ti direi che marxianamente si tratta della classe impegnata nelle attività di circolazione del plusvalore. Sono tutte, in senso stretto o in senso lato, attività di manipolazione simbolica (il famoso lavoro cognitivo) ed è questo, più che il lavoro culturale in senso stretto, che mi pare interessante da osservare”.
 
Il panorama della produzione simbolica, però, si va diversificando. Delle figure creative apicali, a lungo incisive, resta il guscio performativo buono per talent e riviste. Aumenta l’incidenza dei singoli attori, in base non solo alla legge per cui all’uberizzazione del terrore concorrono sia bianchi borghesi (Breivick) che ex colonizzati piccoli criminali banlieusard – ma anche grazie a coloro che a più livelli partecipano alla trama e al disegno di un tessuto simbolico diffuso e condiviso. Chi insegna e fa secondi lavori o chi ha impieghi culturali fuori dal settore culturale, chi lavora con persone emarginate, su bisogni simbolici e quotidiani, chi crea eventi o studia interventi strategici, diffusi, su misura, o chi fa autoformazione, partecipazione pubblica e protezione attiva di welfare, heritage, territori. Chi tramite new media cambia livello d’informazione, scambia sapere, cura design d’interazioni tecnologiche (p.e. hackathon), l’effetto sui costumi, chi progetta prodotti (p.e. serie tv) che generano influenze reciproche fra contesti reali e performativi. Persino chi si riconverte all’agricoltura e fa laboratori didattici nei campi o in città fa iniziative per badanti. La fascia di soggetti influenti sulla produzione simbolica s’è espansa, deverticalizzata, contempla più figure, ibride, responsive, capaci di azioni cross e meta-culturali, d’interfacciare competenze, soggetti e realtà diverse, adattare risorse e attivarle nel minor numero d’intermediazioni, incidendo sui valori condivisi.
 
“Può darsi ci sia fin troppa severità nel mio modo di affrontare la questione senza rendere un tributo a tutte le professionalità (o quasi-professionalità) che producono saperi che finiscono per essere valorizzati sul mercato. Il mondo culturale è come un brodo primordiale in cui, prima o poi, attraverso infinite combinazioni, nascono le idee che cambiano il mondo”, aggiunge Ventura, “perlomeno quando funziona, perché le idee prodotte in un contesto devono poter essere sorrette dal tessuto produttivo corrispondente: se la Silicon Valley produce innovazione è perché innanzitutto è una struttura capace di trasformare le intuizioni in aziende. Ma sono gli investimenti personali, strutturalmente irrazionali, a finanziare questo meccanismo evolutivo: un meccanismo precisamente capitalistico. Capitalismo che fa leva sullo spreco, sulle aspirazioni, sulla propensione individuale a rovinarsi letteralmente per partecipare alla grande lotteria dell'innovazione. E il bello è che lo fanno spontaneamente! Nessun potere pubblico potrebbe alzare abbastanza tasse per finanziare le stesse spese che gli individui son pronti a affrontare per tentare la loro chance. Quel che può fare il potere pubblico, è intervenire quando appare evidente che il meccanismo aspirazionale è fuori controllo e la concorrenza al coltello, lungi dal produrre innovazione, impoverisce tutti.”
 
Insomma, l’innovazione nasce dalla propensione al rischio dei singoli in conflitto evoluzionistico – che, privi di percezione del rischio, partecipano al potlatch di beni (spesso neppure loro, si parli di debito pubblico o di risparmi di famiglia) di cui, se non interviene lo Stato non resterà nulla. Ma non c’è spazio per azioni slegate da aspettative individuali e compiute per amore della vita, per il rifiorire delle sue potenzialità? Per affrontare gli squilibri di cui non vorremmo essere causa e non sappiamo essere soluzione? Non si può evadere dal carcere immateriale delle mansioni cognitive e dar forza a una rete di protezione simbolica per sé e gli altri? Siamo certi che ogni atto di sharing si compia in un’economy di cui siamo i complici prosumer? Che si perda in una vita organizzata da cui non è possibile fuggire, in cui si è continuamente riassorbiti? L’irrazionalità – fallita ogni mediazione narrativa e armonizzazione istituzionale fra gli attori sociali – non serve anche a generare nuovi riferimenti simbolici, modelli di intervento, forze coesive? A creare uno spazio di riequilibrio, anche narrativo, proprio lì dove le classi culturalmente egemoni han soffocato i conflitti sotto racconti deboli e apparati di controllo eccessivi? Non è anche un impulso auto-regolativo? Un freno d’emergenza?
 
Dell’abitudine di istituire bandi e premi che creano più frustrazione, dispersione di progettualità, che risultati socioculturali? Dell’azione di fondazioni, ICC, soggetti vari promotori d’interventi, erogatori di contributi? Del ruolo, in essi, della sua classe, disagiata o meno, cosa pensa Ventura? “Queste fonti di finanziamento della cultura, nel modello che propongo, sono dei modi in cui il capitale accumulato nella sfera della produzione, poi prelevato dai poteri pubblici e privati, viene riallocato per generare ritorno su investimento nella sfera del simbolico (pubblicità, innovazione, ecc.) che dev’essere poi riconvertito in ritorno economico. Il problema è che ciò accade in maniera scoordinata, non cooperativa, sperando forse in qualche mano invisibile. Questi meccanismi di tipo evoluzionista, però, funzionano nella Silicon Valley – ma da noi danno un risultato dispersivo, perché le barriere all’ingresso sono molto basse” e dice: “Il libro ha una folle ambizione sistemica, braudeliana, di produrre una storia del presente dal punto di vista dei secoli. Nei termini della mia analisi direi che il sistema per cui la circolazione del capitale simbolico viene riconvertita in capitale economico, è un gioco che funziona solo se nel periodo in cui si accumula il capitale simbolico si dispone di altre fonti di reddito economico. E quindi piuttosto inegualitario, oltre che inefficace.” Per immunizzarci dall’infezione della finzione culturale, diffusa per mezzo di diseguaglianze interne alla sua classe d’attori, Ventura lascia in ombra, a volte in filigrana, la voragine di esclusione culturale su cui si basa l’intero sistema economico: coloro le cui barriere all’ingresso saranno sempre troppo alte. Affronta la disamina psicologico-sociale di una servitù cognitiva vestita da nobiltà (e viceversa, à la Marivaux) per rendere forse meno ricattabili, e lucide sulle loro aspirazioni, le generazioni a venire. Ma in una società che rimuove che, oltre ai fatti dello spirito, come i libri ecc. (cit. Robert Walser in esergo alla Teoria) anche mangiare cioccolata e assaggiare una torta di mele, ormai, hanno poco d’innocente, la sfida è dare luce alla sua parte invisibile: non i servi di scena, ma chi è ignorato, fuori dal teatro. Chi è comparsa partecipativa a sfondo dell’autorappresentazione di elargitori di turno.
 
Se l’ammissione d’errore, la critica di ingiustizie, approcci sdoganati, non rendono la Teoria un Gomorra o un’indagine di Report sul settore culturale (di cui c’è bisogno), perché per l’autore “è un libro kamikaze? Che guerra è? E che rischi corre? “E’ una guerra contro il principio di omertà che regola l’accesso alle posizioni nel terziario avanzato: omertà, parte di una strategia d’occultamento ideologico, che serve a spacciare la deliberata corsa al ribasso nelle pretese contrattuali – il dumping dei più protetti nei confronti dei meno protetti per una realtà passivamente subita dalla classe media. Strategia di occultamento che, attraverso l’evocazione di un nemico fantasmatico, distoglie l’attenzione dall’insanabile conflitto mimetico tra gli stessi membri della classe disagiata”. Ma, aggiunge Ventura, “per dire tutto questo, sono costretto a prendere su di me tutto il peso di alcune considerazioni piuttosto impopolari, perlomeno presso i miei interlocutori. Primo: non c’è modo di assorbire tutte le nostre aspirazioni, costruite socialmente, perché le promesse di mobilità sociale su cui si fonda il capitalismo servono a generare una domanda infinita. Secondo: la nostra lotta quotidiana, più o meno tormentata, per realizzarci in ciò che riteniamo essere la nostra vocazione o professione – Weber direbbe il Berufè di fatto un investimento che possiamo permetterci soltanto perché la nostra classe di provenienza ci mette a disposizione le risorse economiche: dai soldi per studiare alle infrastrutture familiari (vitto, alloggio, vacanze, salute, eredità ecc.) fino alle “paghette” con le quali molti figli della classe media integrano i loro stipendi per arrivare a fine mese”, e conclude, crudamente: “Quanto ai rischi che corro, è evidente che non avrei potuto pubblicare questo libro nel paese in cui lavoro a contatto con artisti, intellettuali e operatori culturali, la Francia, senza mettermi in una situazione professionalmente difficile.”
 
Ventura interviene su alibi sociali e tabù della sua classe, senza anestesia, ne divarica le ferite. Anche se è “un’autocritica, un esercizio che fa e non impone”, la sua esibizione ha effetti nel suo rapporto con gli altri. “Innanzitutto noto che certi critici rifiutano di partecipare all'esercizio di verifica del privilegio che propongo”, afferma, “lo scambiano per una letterale confessione, s’inventano che sarei il rampollo di una facoltosa dinastia di piagnoni, per poi concludere con la coscienza tranquilla che il mio discorso vale per me, soltanto per me, e non per loro. Eppure tra questi critici vedo solo gente che mi assomiglia, con la differenza che loro forse riescono (beati loro) a vivere della loro produzione intellettuale, perché hanno potuto investire di più e più a lungo di quanto potessi fare io. Ed è per questo che non auguro a nessuno di entrare in questa corsa se non è sicuro di potere arrivare fino in fondo. Io spesso mi chiedo: chissà tutti questi critici della Teoria della classe disagiata, che pure galleggiano da lunghi anni nel purgatorio del lavoro cognitivo, da dove traggono l'ottimismo per confutare il mio pessimismo, anzi la faccia tosta per esaltare quelle stesse scelte di vita che li hanno consegnati alla miseria: a me bastarono pochi giorni di vita attiva per sprofondare in una disperazione profonda. Forse si tratta solo di una crudele vendetta, sorta dalla convinzione che trascinare fresche vittime nello stesso errore, pur di non ammetterlo, possa alla fine alleviare la propria pena”.
                                                                                                               
E se il lavoro culturale perdesse l’aura? “Si metterebbe un punto finale ai comportamenti autodistruttivi. Nessuno accetterebbe capitale simbolico invece di capitale economico. Ma sopravvivrebbe la cultura a questa rasoiata? Temo di no: la creazione artistica, l’innovazione, vivono di scommesse irrazionali, spese eccessive, sacrifici. Fare cultura nel capitalismo è sempre più antieconomico, come mostrò Baumol nel confronto fra i costi decrescenti dei beni industriali (una scarpa) e crescenti di beni non scalabili (un’ora di recitazione davanti a una sala di cento persone). Il problema di fondo è mantenere un equilibrio tra rischi e benefici, individuali e collettivi”. Se le forme attuali di scambio simbolico, segnate dalla pervasività del performativo e da esperienze legate a fruizioni digitali, invitano a ripensare al peso culturale dei nuovi beni scalabili, implementando il riferimento a Baumol – al ruolo dell’università come agente auto-regolativo, Ventura, non lascia spazi: anche se la pianificazione cui accenna non pare fuggire al buco nero del mercato: “Di certo si potrebbe ottimizzare la mancanza d’equilibrio agendo sull’università, ma a quanto pare nessuno vuole sentire parlare di pianificazione per timore che garantire una migliore spendibilità dei titoli di studio sul mondo del lavoro possa produrre un’intollerabile discriminazione tra gli studenti. Il sistema attuale, in cui il titolo vale zero per tutti, appare evidentemente più egualitario. Se non fosse per quella piccola variabile, che è sempre lì: il capitale economico.”
 
Se non avessimo avuto accesso alla formazione pubblica, criticata da Ventura per l’illusione collettiva di emancipazione e ascesa di cui è portatrice, dubito che fra noi molti sarebbero giunti a comprendere la propria condizione. Figlio di migranti di classe operaia e contadina, disilluso come lui, privilegiato per aver potuto raggiungere un grado di consapevolezza, resto convinto che la dignità di un individuo risieda anche nel permettergli – descolarizzata e deistituzionalizzata come si vuole – la partecipazione a un sistema di scambi simbolici, l’acquisizione di strumenti di comprensione e espressione utili per interagire con il resto del gruppo sociale, ancorché teso ad asservirlo. È wishful thinking o tendere la mano ai sommersi culturali, abilitandoli, facilita l’inclusione, pur conflittuale, e una futura convivenza?
 
Lo stile di Ventura, a volte evapora in entertainment culturale, diverte, ma non si spinge sul versante della produzione letteraria, dove si può costruire qualcosa di più aperto, coeso, forse più coraggioso. Lo sciame sismico d’interventi seguiti alla pubblicazione mostra una sensibilità giusta per aprire una faglia narrativa profonda, provocare la scossa di una comprensione più complessa e pregnante del tema. “La faglia narrativa c’è – dice Ventura – ma curiosamente non vedo molti autori in grado di riempirla, tant’è che io ho praticamente antologizzato tutta una serie di romanzi otto-novecenteschi. Avrei potuto scrivere un romanzo, ma forse non ne sono capace: padroneggio meglio questo genere che ho inventato io: potremmo chiamarlo autofinzione sociale, economia poetica o collezionismo di citazioni”. Se la Teoria è l’epopea di una classe che insegue la propria icona, in essa si descrivono le macro-dinamiche della sua implosione perdendone di vista (dietro l’auto-inganno) il ruolo ricoperto come ceto intellettuale nei processi di gentrificazione socio-culturale: il disagiato di classe che ambisce a competere, influire, partecipare in contesti dov’è raro esprimere o indurre altro da adesioni a obiettivi predefiniti dalla rete d’interessi e poteri stabiliti, non rischia di dar vita come si può intuire da certi passaggi della Teoria – ma è gia nuovo ‘fascismo’. Attraverso il vetro della satira di Ventura, esso non smette mai i panni della caricatura di sé e, in fondo, di vittima: ma come esprime la sua vocazione carnefice? Il riferimento storico al fascismo, l’analisi carente, nel libro, delle sue nuove forme embrionali, possono fuorviare. “Non parlerei di fascismo, perché,” dice Ventura, “mi pare scorretto destoricizzare questa categoria per altri versi ancora operativa, ma quella che descrivo è chiaramente una guerra di tutti contro tutti. La classe disagiata è lo stato di natura hobbesiano in cui si trovano gettati i figli della classe media nel momento in cui sono tutti minacciati dalla pauperizzazione. Una crisi di sovraccumulazione in forma di dilemma del prigioniero: l’esito, che di fatto sta già producendo, è l’annientamento dei più deboli. La classe disagiata è carnefice di se stessa, ignora che finirà vittima dei suoi stessi comportamenti non cooperativi.” All’analogia della disforia di classe o del dilemma del prigioniero, che ci lasciano ancora ad una visione poco dinamica, quasi fossimo finiti in una situazione che non ci appartiene, opporrei quella della condizione teorica di gioco dove ogni giocatore cambia continuamente coalizione con l’obiettivo di escluderne un altro – rischiando di essere eliminato a sua volta – descritta da Gregory Bateson nella trattazione del suo doppio vincolo: schema relazionale, a sua volta, più adatto a descrivere lo stato di chi, agendo, non può che negare se stesso; la patologia del suo gruppo di appartenenza; la sua complicità con la menzogna che, in tale gruppo, lo condanna.
 
Alla Teoria manca lo spoglio tagliente delle logiche complesse degli atelier culturali che confezionano i nuovi vestiti dell’imperatore, con i loro pericoli e potenzialità. Ogni epoca ha i profeti del suo disastro, e Ventura si è consacrato a questa zona grigia: “Se la classe disagiata si è ritagliata il ruolo di sarta dell’imperatore non è soltanto perché l’imperatore paga bene, ma anche perché i loro interessi sostanzialmente coincidono. Forse, dico forse, questo lavoro simbolico potrebbe essere messo al servizio di una strategia diversa: l’unica che mi venga in mente, cioè l’annientamento della classe disagiata stessa, è in fondo ciò cui ho provato a dare un piccolo contributo con il mio libro.”
 
Servirebbe che il lavoro simbolico ci sottraesse agli effetti del reciproco stritolamento; che, nella lotta per le cose materiali, le cose fini e spirituali, anziché apparire come prede dei vincitori, agissero retroattivamente rimettendone in questione ogni vittoria, e che – vive come fiducia, astuzia, humor, coraggio, azione ininterrotta – portassero tutto ciò che è stato a rivolgersi al sole che desideriamo si alzi nel cielo della storia. Come un lento, inarrestabile, volgersi di girasoli.
 
 
Teoria della classe disagiata
di Raffaele Alberto Ventura
Ed. Minimum Fax, 2017
262 pagine, 16,00 € 
(13,60 € promozione minimum fax / 7,90 € e-book) 
 
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Altri link | Dati UNESCO sull’occupazione culturale | Valentina Montalto su Il Giornale delle Fondazioni
 
L’autore in rete
Eschaton | Progetto editoriale di Raffaele Alberto Ventura
IL Magazine | IlSole24Ore
Che Fare
Il Tascabile
L’internazionale
Prismo | Progetto editoriale collettivo (2015-2017)
 
Ph | Amerigo Nutolo | Il volume di Raffaele Alberto Ventura in libreria Feltrinelli, via Pasubio, sotto l’opera di Alfredo Jaar.