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QUANTA E QUALE INNOVAZIONE SI STA GENERANDO NELLE POLITICHE CULTURALI?

  • Pubblicato il: 23/08/2016 - 09:00
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Rubrica: 
SPECIALI
Articolo a cura di: 
Redazione

SPECIALE MECENATE '90. Riceviamo  commenti dai nostri lettori e contributori, di segno diverso,  sul Forum lanciato da Mecenate ’90 sulle nostro colonne in merito alle innovazioni necessarie alle politiche culturali, che oggi paiono rientrare al centro dell’agenda politica. Li condividiamo per arricchire il dibattito

 
 
 
Gentile Redazione,
nello speciale Forum lanciato da Mecenate ’90 sulle colonne del Giornale delle Fondazioni per il rilancio dell’economia della cultura nel nostro Paese abbiamo avuto modo di confrontarci con idee, intuizioni e soluzioni molto interessanti, ma che partono da una prospettiva che pur conoscendo bene, probabilmente ho smesso di condividere. 
Da tempo, ormai, c’è un tema che puntualmente emerge, e che vorreiqui porre come elemento di riflessione ulteriore; il tema, in realtà, è una domanda molto semplice, ma dalle ricadute molto profonde sia in termini di riflessione accademica, sia, cosa a nostro avviso ancora più importante, dal punto di vista operativo: cosa, finora, non ha funzionato? E perché?
Gli spunti di riflessione che vengono qui condivisi pongono in luce alcuni potenziali aspetti di ciò che, di fatto, è andato male nel tentativo di rendere l’Italia un’economia fondata sulla cultura e sulla conoscenza. Queste riflessioni riguardano il livello di centralizzazione delle politiche, il ruolo delle città minori, modelli di partnership pubblico-pubblico e pubblico-privati, il superamento della visione dicotomica tra tutela e valorizzazione, riprendendo i distretti culturali, etc. etc.
Queste idee, queste riflessioni, queste suggestioni, di fatto, sono tutte esatte, giustissime e condivisibile. Proprio in virtù di questa correttezza ci permettiamo di condividere il nostro dilemma operativo: partendo dal fatto che, anche se in differente misura, queste ipotesi sono già state formulate nel corso degli anni, allora, cosa non ha funzionato? Perché tutto ciò non è stato già realizzato?
Si citano interessi economici (e ci sono), si citano anche differenti vedute politiche (e anche quelle sono presenti), si guarda all’incapacità istituzionale di avviare una riflessione di medio periodo (la cui evidenza è lampante). 
Ma se queste sono le condizioni che non hanno permesso l’evoluzione di un sistema culturale efficiente, cos’è cambiato ora? Quali mutamenti di scenario sono accaduti da permettere che quanto di fatto è riconosciuto in modo unanime come un percorso virtuoso, possa finalmente trovare reale applicazione?
La risposta che ci siamo dati, finora, è che dato che lo scenario non è cambiato, e che le condizioni che non hanno permesso lo sviluppo di una visione economica (a pieno regime) della cultura nel nostro Paese rimangono incastonate nei gangli della nostra pubblica amministrazione, nelle circolari, nelle politiche fiscali, nelle assunzioni bloccate, nelle assunzioni sbagliate...date tutte le problematiche che chiunque parli di cultura è pienamente consapevole, la strada è quella di guardare attraverso un’altra prospettiva.
Nell’articolo che abbiamo pubblicato su questa rivista, legato al fenomeno dello Sharing Paradigm, la riflessione è molto puntuale: se l’economia della cultura non impara nuovi linguaggi è destinata, semplicemente, a scomparire, e lasciare posto ad altri modelli di sviluppo che, invece, trovano proprio in questa disciplina l’elemento scatenante.
La nostra visione dell’economia della cultura è ancora troppo ancorata ad una visione statalista-assistenzialista: se la cultura e le industrie culturali e creative sono un comparto industriale (cluster) allora perché il lessico, le riflessioni, le argomentazioni sono ancora e sempre legate ad una visione politicizzata della cultura? Perché non si valuta una politica culturale come si valutano le politiche industriali?
Questo è ciò che l’economia della cultura, a nostro avviso, deve apprendere da quanto accade in altri settori emergenti: guardare al comparto nel suo complesso come all’azione di privati che riescono a vincere le resistenze di un mercato (enorme), e facilitare e normare lo svolgimento delle attività culturali all’interno di un regime di concorrenza. 
Premiare chi rischia il proprio capitale e il proprio tempo per migliorare, innovare o semplicemente arricchire il comparto culturale e favorire la produzione di nuovi servizi, di nuovi ibridi, di nuovi modi di guardare ad un patrimonio culturale immenso e meraviglioso.
Guardare alle connessioni che cultura e creatività hanno con gli altri comparti industriali del Paese, e non ai numeri dei visitatori gratuiti dei luoghi della cultura statali.
Non sappiamo se questa strada potrà portare ad una reale evoluzione del nostro sistema culturale, ma quantomeno è una prospettiva nuova che non ripete la crociata persa in partenza dei buoni propositi.

Stefano Monti 
Monti & Taft
 
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Cultura, servizio essenziale
spunto dall'ottima riflessione di Alessandro Leon e con l'occasione mi permetto di ricordare suo padre Paolo economista galantuomo, nonché economista della cultura concreto e sempre attento alle dinamiche sociali per l'effettivo sviluppo delle comunità. Ebbene buon sangue non mente e allora l'approccio indicato nell'articolo "La cultura tra riforma e crisi economica: un approccio territoriale" diviene un "luogo" interessante per il necessario risvolto attuativo delle politiche culturali ben pensate.
Vi è in questa fase storica una lotta quotidiana tra la difficile gestione delle risorse pubbliche (a causa di bilanci sempre più orientati all'emergenza o a scelte discutibili) e la scarsa propensione alla spesa per la cultura da parte delle famiglie dissanguate dalla crisi economica. Vi è altresì un problema della percezione della cultura da parte della collettività e questo genera dei paradossi che inevitabilmente incidono sulla qualità.
Torniamo ai territori; se un'amministrazione locale decide di investire sulla cultura, non sempre tale scelta è vista come la migliore; infatti vi è più visibilità da parte del contribuente nella raccolta dei rifiuti o nella manutenzione stradale rispetto all'evento culturale. Cosicchè gli amministratori che possiamo definire illuminati, sono, di fatto, considerati dalla maggioranza dei cittadini scellerati  poichè a loro avviso le priorità sarebbero altre., accusando di sprecare risorse per il  superfluo.
In questo senso le proposte operative di Leon trovano ampia cittadinanza, focalizzando la percezione generale sui centri di ricavo e non sui centri di costo.
La capacità di individuare un'Italia diversa risiede nei termini progettuali concreti come obiettivo mobilitante di politiche pubbliche che escano finalmente dalla tradizionale convegnistica passando dalla sostanziale indifferenza espositiva al terreno della vera e concreta iniziativa risolutiva. Un recente studio della SVIMEZ " Le spese per la cultura nel Mezzogiorno d'italia" (che si consiglia di leggere integralmente) aiuta a capire lo stato dell'arte e soprattutto la circostanza che la cultura in Italia non è ancora considerata servizio essenziale, come lo stesso Leon sottolinea quando afferma :  si dovrebbe agire subito per modificare il trattamento fiscale della cultura tra i servizi pubblici locali: la cultura è un servizio essenziale, come per la sanità, lassistenza sociale, le scuole...
  Sul piano concettuale la questione è quella di una definizione rigorosa di“cultura” e di “spese per la cultura”.  È ben chiaro che non tutto ciò che con evidenza corrisponde alla nozione di cultura in senso stretto costituisce prestazione essenziale, ed è chiaro altresì che, specie in particolari contesti (e ci si riferisce a zone urbane degradate), spese che a prima vista non corrispondono a “cultura” possono produrre prestazioni il cui livello essenziale può offrire ai giovani (o ai vecchi) una via di fuga da condizioni di vita, o di rischio, non accettabili. Ed è vero d’altra parte che anche i “servizi ricreativi” (o taluni di essi) possono concorrere, così come la cultura, alla formazione di“capitale umano”, tanto da essere contemplati, insieme al settore culturale, tra le dimensioni utili a rappresentare il benessere dei cittadini e l’aggregazione sociale di un paese.
Tale ragionamento, come si vede, incide direttamente sul concetto di percezione esterna del ricavo culturale; in questo la scommessa dei territori dovrebbe essere costante attraverso un'adeguata comunicazione istituzionale e soprattutto attraverso la "cultura dell'investimento" in luogo della spesa, evidentemente considerata spreco o inutile.
Sul punto ancora la SVIMEZ evidenzia che negli ultimi tredici anni la cultura è stata tagliata di più al Sud. Dal 2000 al 2013, infatti, la spesa totale nel settore della cultura ha subito un crollo di oltre il 30% nel Mezzogiorno, passando da 126 a 88 euro pro capite, contro il -25% del Nord. Nel 2013 fatto pari a 100 il livello medio nazionale la spesa pro capite per la cultura è stata del 69% nel Mezzogiorno, a fronte del 105% del Nord e del 141% del Centro.
Tale quadro economico è riferito alla voce “cultura e servizi ricreativi” e si intendono principalmente interventi a tutela e valorizzazione di musei, biblioteche, cinema, teatri, enti lirici, archivi, accademie, ma anche attività ricreative e sportive quali piscine, stadi, centri polisportivi, fino alla gestione di giardini e musei zoologici. Due i soggetti maggiormente coinvolti da queste spese: i comuni e lo Stato, insieme al CONI. Decisamente minori gli apporti delle Regioni, che destinano al settore risorse soprattutto di provenienza europea.
Con una recente e bella sintesi Antonio Pappano , direttore musicale dell'Accademia di Santa Cecilia, afferma che non dobbiamo avere paura di investire in cultura, poichè si tratta di un investimento dagli orizzonti lunghi, fa quadrare l'economia e nello stesso tempo fa raggiungere risultati straordinari in tanti campi, primo fra tutti quello della coesione sociale.
C'è un problema in tutto questo che non deve essere trascurato: la comunicazione culturale. Ho provato in questi giorni a visitare a campione siti istituzionali di numerose amministrazioni locali; ebbene nella maggioranza dei casi vi sono pagine non aggiornate che non riportano alcuna indicazione dell'offerta culturale. In questo quadro come è possibile attrarre visitatori?  E' possibile in alcuni casi che cercando eventi in corso le pubblicazioni siano ferme al 2014! Ora questo errore non è scusabile ove si tratti di luoghi per vocazione culturali i quali dovrebbero offrire ai residenti ( contribuenti) e ai turisti (che spendono) una completa informazione sulle politiche culturali.
In conclusione è necessario insistere sulla cultura non percepita come mero  bene di lusso ma, come per la sanità e la scuola, davvero essenziale per lo sviluppo dei territori poichè non solo centro di costo ma di ricavo. La partita si gioca, attingendo alla disciplina dell'economia della cultura. Occorre mettere in campo le migliori scelte attraverso le quali i territori possano esprimere le rispettive eccellenze con idee innovative e concrete. La sfida, ad esempio, per il titolo di Capitale italiana della cultura sta dando ottimi risultati soprattutto in termini di ritrovato appeal dei luoghi. Insomma ci si pone il problema di migliorare le città per esporle ad una gara pubblica il che consente un ritrovato orgoglio  sociale tra amministratori e amministrati, mirando alla gestione sosteniblie delle risorse.
Degni di nota in questo senso sono i cantieri di progettazione con progetti di valorizzazione turistico – culturale, laddove un piano strategico del turismo a livello nazionale dovrebbe necessariamente produrre ricadute generose anche nelle piccole realtà spesso sacrificate da infrastrutture completamente da ripensare.  Quello che serve e si concorda con lo studio SVIMEZ, è “non soltanto un maggiore impegno finanziario di tutti, ma altresì una effettiva riconsiderazione e riforma dei meccanismi finanziari e istituzionali”. In primis, le spese per la cultura “attengono ai livelli essenziali delle prestazioni (LEP), che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”. Diritti con portafoglio:“tutti i diritti richiedono, da parte di tutti i livelli di governo, una disponibilità concreta di risorse”. Inoltre, in base all’art.117 Cost, è lo Stato che deve definire i LEP e costruire un meccanismo che li renda disponibili. Occorrerà inoltre, conclude la studio definire un sistema di poteri e responsabilità che consenta una gestione adeguata del settore, difendendo l'operato di quelle amministrazioni che decidono di investire in cultura, malgrado tutto direbbe Sciascia.
 
Antonio Capitano
Sono laureato  in Scienze Politiche. Ho pubblicato contributi su materie giuridiche, di economia della cultura, di analisi sociali e politiche. Ha scritto per Il Riformista e collabora  con diverse Riviste on line e cartacee (Quotidiano enti locali il Sole 24 Ore, Il Ponte , Fatto Quotidiano , Rivista Siti Unesco,  Formiche.net, Blog Buone notizie del Corriere della Sera)