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Paghe risibili anzi vergognose per i direttori

  • Pubblicato il: 13/04/2012 - 10:18
Autore/i: 
Rubrica: 
STUDI E RICERCHE
Articolo a cura di: 
Edek Osser

Roma. I direttori dei musei statali più prestigiosi, specialisti di altissimo livello che il mondo ci invidia, responsabili dei tesori più preziosi del nostro patrimonio artistico e archeologico, guadagnano poco più di un operaio. Un esempio: lo stipendio netto di Antonio Natali, da sei anni direttore degli Uffizi di Firenze, il nostro museo più visitato e famoso, è di 1.890 euro, tutto compreso, senza altri introiti. Natali spiega: «Mi considero un volontario. Tengo però a far sapere che senza lo stipendio di mia moglie, insegnante, non potrei mantenere in modo dignitoso le cinque persone della mia famiglia». Natali, specialista del Quattro e Cinquecento, per gli Uffizi ha rinunciato anche alla cattedra di professore ordinario di Storia dell’arte a Perugia (guadagno triplo), dopo aver vinto il concorso. È tra gli oltre trenta direttori di musei e responsabili di settori cruciali del Mibac che hanno firmato una lettera aperta per far conoscere la loro condizione. La lettera si è trasformata in una clamorosa denuncia e ha portato alla luce una realtà trascurata, uno scandalo nascosto: i compensi «ridicoli» dei direttori dei musei, conseguenza di una organizzazione burocratica che li priva anche di ogni autonomia. Eppure musei e siti archeologici sono la vetrina artistica del nostro Paese, tra le principali ragion d’essere del Ministero dei Beni culturali. Quale strano meccanismo sminuisce ruolo e compenso dei direttori ai quali sono affidati i nostri tesori, facendone dei dipendenti sottopagati?
Primo punto: nonostante la specializzazione (sono storici dell’arte, architetti, archivisti, archeologi, bibliotecari), la lunga esperienza, la stima conquistata in campo internazionale, la capacità di gestire strutture museali anche grandi con compiti e responsabilità enormi, per lo Stato sono dei normali «funzionari». Non hanno la qualifica di dirigente e questo li mette alla pari con il personale d’ufficio. Al Mibac la loro retribuzione varia (con l’anzianità) da 30 a 35mila euro lordi all’anno: da 1.600 a poco più di 1.800 euro netti al mese, il massimo della categoria. Nessuna indennità di funzione, nessuna compensazione aggiuntiva.
Ma c’è di più. Natali usa un paradosso: «In realtà, dice, i direttori dei musei non esistono». Ed è questa la seconda ragione delle storture. Infatti il ruolo di «direttore di museo» non è previsto dalla struttura del Ministero. Un direttore è nominato dal soprintendente (in base a esperienza e qualifiche), esercita il mandato per sua delega, resta in carica a termine e può essere revocato. Un compito interstiziale con poteri derivati. Questa situazione è il frutto di una serie di scelte negative della struttura pubblica, stratificate e peggiorate col tempo.
Il Ministero ha cercato di riflettere sulla situazione anomala dei musei. Dopo anni di discussioni ne è scaturito un «atto di indirizzo», dunque non una norma, sugli «standard museali». Avrebbero dovuto portarli alla pari con quelli europei per accoglienza, conservazione, comunicazione, valorizzazione: premessa di un rilancio, di una maggiore autonomia. Ma tutto è rimasto allo stato di progetto.
Anna Lo Bianco, 32 anni di carriera, dirige la Galleria nazionale d’Arte antica di Palazzo Barberini, a Roma. Anche lei ha firmato la lettera aperta: «Dall’esterno ci chiedono, per esempio, maggiore autonomia di decisione nei rapporti con i privati che offrono sponsorizzazioni. Cito un caso: la grande galleria privata di Gagosian tenne da noi la serata inaugurale quando aprì la sua sede a Roma. Invece di un compenso abbiamo ottenuto delle divise per tutto il personale. Prima, questo genere di decisioni si potevano prendere direttamente e del resto nessuno meglio di chi vive nel museo sa quello che serve. Adesso le cose si sono complicate: ci vuole un versamento alla Soprintendenza, poi un consiglio d’amministrazione decide, ma non è detto che il desiderio dello sponsor o del singolo privato venga accettato. E questo dilata i tempi, trascura ogni urgenza. Insomma, più si centralizza più si perde di efficacia».
La mancata autonomia, terzo elemento negativo, investe anche le Soprintendenze, che dovrebbero essere lo snodo tra museo e Ministero. Invece la catena di comando si è allungata con la creazione delle Direzioni regionali, un «intervallo» politico-burocratico con compiti non sempre chiari e responsabilità che si scontrano spesso con quelle delle Soprintendenze. I musei sono la lontana appendice di un potere centrale che diventa cieco perché non ce la fa a sapere, a capire, a intervenire con efficacia nelle decisioni. Due mondi che non comunicano. «Quando sono entrata al Ministero nel 1980, a Napoli, ricorda Anna Lo Bianco, il soprintendente alzava il telefono e parlava con il ministro. Non c’erano filtri. Lentamente i gradini intermedi si sono moltiplicati. Prima c’era un direttore generale, adesso sono 4, poi ci sono le sottodirezioni, quindi i direttori regionali… è un proliferare incomprensibile per i nostri interlocutori esterni. Quando chiedono in prestito un’opera, non sanno che devono scrivere a me, al soprintendente, all’Ufficio mostre del Ministero... Una cosa ridicola. E tutto questo si è aggravato negli anni».
Anche Anna Lo Bianco è un «semplice» funzionario: stipendio netto di 1.758 euro al mese. Eppure dirige un grande museo con centinaia di capolavori. Da lei dipendono oltre 40 persone; affida compiti e ruoli, organizza il museo e le relazioni esterne, decide l’allestimento e Palazzo Barberini è stato da poco completamente riallestito con una spesa di centinaia di migliaia di euro. Come «responsabile del procedimento», la direttrice Lo Bianco ne risponde, anche penalmente, in proprio. Ci vorrebbe un’assicurazione, ma il Ministero non provvede. Chi la vuole se la deve pagare. Ogni direttore deve infine trattare con i sindacati, curare la conservazione delle opere, i restauri, la climatizzazione delle sale, valutare i prestiti, dare pareri tecnici sui permessi di esportazione. Tutte funzioni specialistiche che richiedono particolari competenze. Infine c’è il grande capitolo mostre: ideazione, curatela, organizzazione, allestimento, comunicazione e spesso anche reperimento dei fondi. Non poco per un semplice funzionario. E questo vale per ogni direttore.
Questa specie di «apartheid» dei direttori si è drasticamente accentuata con la legge Bassanini del 1998 (primo governo Prodi) sulla dirigenza pubblica. Fu decisa una più netta separazione tra funzionari e dirigenti, che ebbero fortissimi aumenti di stipendio. Questo ha portato a un’enorme divaricazione tra i compensi delle due categorie. Notevoli le differenze tra gli stessi dirigenti, divisi in due fasce di stipendio: quelli di seconda fascia (tra cui un centinaio di soprintendenti e circa 65 dell’Amministrazione centrale di Roma) e quelli di prima fascia (9 direttori generali e 17 regionali). Al Mibac c’è quasi un raddoppio di stipendio a ogni gradino; da funzionario (1.600-1.800 euro netti al mese) a dirigente di II fascia (oltre 3mila euro, tutto compreso) fino alla I fascia (circa 160mila euro lordi all’anno, oltre 6mila netti al mese). Dopo la legge Brunetta sulla trasparenza, il Mibac pubblica sul suo sito stipendi e curricula dei dirigenti, ma non dei funzionari che ora chiedono siano resi pubblici anche i loro guadagni, per rendere nota la loro condizione. Da notare che la composizione degli stipendi dei dirigenti pubblicati dal Ministero sotto il titolo «Operazione trasparenza» non è affatto chiara. Le voci sono 4 e alcune risultano incomprensibili. Oltre allo stipendio base (circa 33mila euro lordi per un dirigente di seconda fascia, 55 per quelli di prima) si aggiungono altre tre voci (di cui due decisamente oscure: «retribuzione di posizione fissa» e «retribuzione di posizione variabile») e una «retribuzione di risultato» (che dovrebbe variare a seconda dei traguardi raggiunti ma che invece vale per tutti): le prime due voci raddoppiano i compensi della seconda fascia e triplicano quelli della prima. Si tratta di indennità, spiegano al Mibac, e fanno parte integrante della retribuzione. In sintesi: il massimo compenso lordo di un direttore di museo è di 35mila euro: un direttore regionale (dirigente di prima fascia) guadagna quattro volte di più: 160mila euro lordi. Una differenza per molti inaccettabile.
I funzionari più anziani, assunti dopo il concorso del 1980, avevano fatto ricorso alla magistratura nel 1998 perché fosse loro riconosciuta almeno una progressione di carriera e il ripristino per loro del ruolo poi abolito di «ispettore generale». Hanno vinto in primo e secondo grado: 150 euro al mese e una parte di arretrati che sono stati pagati di recente. Ma il Ministero ha fatto ricorso e adesso si aspetta la sentenza della Cassazione.
È in corso anche una rivendicazione dei «funzionari tecnici», direttori compresi. Chiedono tra l’altro il riconoscimento di un’«area tecnica» come studiosi specialisti, così come avviene nei musei di tutta Europa dove esistono i curatori, responsabili di aree artistiche specifiche che affiancano i direttori dei musei. Questi curatori guadagnano in genere molto più del direttore di un museo di Stato italiano senza avere la stessa ampiezza di compiti e responsabilità. Un esempio: al Louvre, Stéphane Loire, curatore del Sei e Settecento, 25 anni di carriera, guadagna circa 4mila euro al mese.
Difficile una vera comparazione con i compensi dei tanti direttori dei musei pubblici non statali, gestiti da Regioni, Province, Comuni. I più importanti sono fondazioni di diritto privato, spesso di arte contemporanea, e i dati non vengono comunicati. Gli stipendi sono comunque ben superiori a quelli dei funzionari dello Stato e corrispondono a quelli di un libero mercato aperto all’Europa nel quale le istituzioni cercano il meglio. Un esempio: la neodirettrice del Mart di Rovereto, Cristiana Collu, assunta dopo concorso con un contratto a termine triennale, stipendio circa 130mila euro lordi all’anno. Ma il vertice di questi musei (spesso fondazioni) ha quasi sempre anche presidente, consiglio d’amministrazione, comitato scientifico prestigioso, i cui costi si aggiungono a quelli del direttore. Soltanto i responsabili dei musei che fanno capo direttamente agli Enti locali hanno stipendi in genere superiori ma paragonabili a quelli dei musei statali. Ma per loro si entra in una giungla inestricabile: molti sono dirigenti pubblici, come ad esempio Clara Gelao, responsabile della Pinacoteca Provinciale di Bari, stipendio lordo circa 52mila euro all’anno, 3.269 netti al mese. Ma ogni Comune, Provincia, Regione, si regola in modo diverso.
Per dare un segnale di disponibilità, il Mibac ha lanciato di recente un bando, un piccolo concorso interno, per una «progressione economica» di tutto il personale del Ministero, custodi compresi. È richiesta una documentazione in copia autenticata di tutti gli incarichi svolti (per i direttori: direzione dei lavori, collaudi, articoli, libri ecc.). Per i funzionari, assunti dopo difficili concorsi, è richiesta perfino la copia autenticata della laurea e del corso di perfezionamento, come se il Ministero, che ha già quei documenti, non riconoscesse più i suoi funzionari. Il termine per la domanda scade il 6 aprile 2012, entro il 30 aprile va consegnata la documentazione. Tutto questo per meno di 100 euro al mese. Potrebbe cambiare qualcosa anche per i direttori dei musei con la ristrutturazione del Ministero, della quale si parla da almeno un anno. Si è bloccato tutto con il cambio al vertice. Forse se ne saprà qualcosa in estate.

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L'inchiesta continua nel numero in edicola con il confronto con gli stipendi dei direttori dei grandi musei europei e statunitensi

da Il Giornale dell'Arte numero 319, aprile 2012