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Paesaggio e arte al tempo dello smartphone

  • Pubblicato il: 15/03/2017 - 10:35
Autore/i: 
Rubrica: 
PAESAGGI
Articolo a cura di: 
Paolo Castelnovi

Quando la sensibilità passa per il formato 4 inch. Nuove professioni per far ponti tra pratiche della realtà virtuale e pratiche dell’abitare nel mondo fisico

 

A pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca, diceva il maestro. Così grandi pensatori pessimisti del ‘900 hanno fiutato l’aria che tirava e ci hanno messo in guardia, ben prima che noi ce ne accorgessimo.
Tra i primi Benjamin che ottant’anni fa è spaventato dalla riproducibilità tecnica delle opere d’arte, per cui si perde l’aura di riverenza e di attenzione che l’arte imponeva quando era inequivocabilmente frutto di fatica e abilità uniche. McLuhan cinquant’anni fa è sarcastico nel notare che il medium è il messaggio, cioè che noi captiamo informazioni (e prendiamo decisioni) più in base al mezzo che ce le veicola che per il contenuto veicolato. Lyotard 35 anni fa definisce post-moderno il modo nuovo di acquisire cultura, che si va affermando: superficiale e per frammenti, rizomatico (invece che a radice profonda, come il modello precedente, del moderno). Nell’attuale evo post-moderno sembrano andare fuori uso le parole intelligente (leggere o legare dentro, in profondità), o comprendere (mettere insieme, riunire) e invece avanzano effimero e decostruzione: ci si libera dei legami bloccanti, si stabiliscono relazioni nuove, anche se si sa che durano il tempo di “una porta che si apre e che si chiude”.
Così, quando lo smartphone negli ultimi dieci anni ribalta ogni abitudine comunicativa e culturale, facendo regnare il motore di ricerca per sillabe e la memoria nel cloud, sembra che gli illuminati del ‘900 sorridano tristemente pensando: io l’avevo detto. Ma, come sempre accade, la realtà è diversa, nel bene e nel male: assistiamo (come davanti a un esodo, ci suggerisce il bell’articolo di Arminio su Doppiozero) a dinamiche che in parte confermano le previsioni e in parte le superano in direzioni difficili da immaginare anche dal più visionario Philip Dick della fantascienza.
Per capire cosa c’è in gioco dobbiamo assumere l’ipotesi, realistica, che l’enormità del cambiamento a cui assistiamo sia paragonabile a quella della transizione da cacciatori ad agricoltori (da Caino ad Abele), da cultura orale a scritta, da habitat rurale a habitat urbano.
Per chi lavora sulla comprensione e comunicazione di aspetti complessi, come il paesaggio, è più facile leggere la dimensione epocale del cambiamento di comportamenti indotti dall’impero dello smartphone, che diventa velocemente cambiamento di competenze profonde, non solo per le capacità operative ma anche per la sensibilità e il senso di identità personale.
Quindi provo ad aggiungere, ai molti aspetti di questo cambiamento radicale già delineati da sociologi e filosofi, una criticità strutturale che emerge dalle pratiche del paesaggio e della fruizione dell’arte.
La gestione contemporanea di due realtà, una del corpo nel luogo dove sta e una mentale che attende alla relazione immateriale attraverso lo smartphone, determina non solo un rischio di dissociazione, ma un necessario impoverimento del rapporto con ciascuna delle realtà.
Nel rapporto immateriale si rinuncia a ogni approfondimento della conoscenza a favore della sua velocità istantanea, uno scambio devastante per gli aspetti cognitivi complessivi. Ci si disabitua al mestiere del sapere, che è la pratica di strutturazione delle relazioni tra le informazioni, in particolare tra quelle in entrata e quelle già organizzate nella memoria. Ci appoggiamo, senza far intervenire la nostra precedente esperienza, a struttturazioni precotte, elaborate da un motore di ricerca letterale; crediamo di capire (carpire) leggendo le prime tre righe della voce di Wikipedia, che è sintesi fatta da altri (buona o cattiva: random). Se smettiamo di allenare il muscolo dell’autonoma organizzazione delle informazioni, la nostra mente riduce la capacità di elaborazione di pensieri personali e diventa solo un veicolo neutro di stimoli che dall’esterno vanno sui sensori primari: le pulsioni, gli istinti.
D’altra parte la reazione istantanea è il nuovo comandamento, imponendo alle nostre attività mentali una velocità senza controllo che si aggiunge alla destrutturazione del pensiero. Siamo spinti a giudizi immediati nei quali prevalgono istinti e pulsioni piuttosto che riflessioni e confronti con altre esperienze memorizzate. Buona la prima! A quel punto pare semplice decidere: ci basta un like, un emoticon (o un voto) per classificare la “nostra” posizione. Un clik spersonalizzato che di “nostro” non ha più nulla.

Ma c’è un’altra rinuncia, non meno grave, nel rapporto fisico con i luoghi. Con la mente altrove, viene disabilitato quell’essere-in, che la filosofia del ‘900 riconosce come fattore fondamentale del senso di sé. Non ha più importanza dove si è: rinunciamo a rinforzare la nostra identità in quanto abitanti di un luogo. E’ come perdere il senso dell’equilibrio, che ci fa sentire NOI in quanto poggiamo i piedi su una terra che conosciamo, dove siamo rassicurati dal fare atti che si ripetono, in un contesto che padroneggiamo.
Non si tratta solo di rinuncia a processi di conferma identitaria: ci disabituiamo a trarre profitto culturale dall’osservazione del nostro intorno. Non sappiamo più cogliere l’eventuale, il fortuito che caratterizza l’habitat urbano dove alberga il nostro corpo. Non aspettiamo l’inaspettato, la serendipity della città non esiste più perché non attiviamo i recettori: non prestiamo attenzione, non esercitiamo la curiosità e quindi nulla interessa e diverte di ciò che ci circonda. In altri termini: non abbiamo più il senso del paesaggio.
Concentrati sullo schermo da 4 inch, dove le immagini più diverse sostano qualche secondo, la nostra sensibilità si specializza. Si perde il senso olistico della presenza nel luogo e nell’evento, quella confluenza dei sensi che si aggiungono alla vista consentendo l’immersione esperienziale che ci ricordiamo quando diciamo “io c’ero”. Nella piccola riproduzione a dimensione costante si perde non solo l’aura dell’opera d’arte ma anche il senso della profondità e delle proporzioni: la Nike vale un orecchino, una photoshoppata vale un affresco del Tiepolo. Insomma non viene stimolata alcuna convergenza di sensi e di memoria complessa, che sono le materie prime alla base delle emozioni: quelle che incantano circondati dalle ninfee di Monet, che ci fanno piangere sentendo una musica in viaggio, che ci fanno tornare felici e spossati da un concerto, che ci fanno dire che le orecchiette con le cime di rapa sul terrazzo di nonna sono tra le cose per cui vale la pena vivere.
Se lo smartphone mette in clausura le emozioni profonde, il ruolo della sensibilità si ridimensiona. Quella sensibilità integrata e allenata, che da 200 anni si era conquistato un posto importante nella nostra personalità romantica viene ricacciata nei registri vezzosi del ‘700, ridotta ad apprezzamento della piacevolezza e della carineria: trionfano sui cellulari cagnolini e disegni per bambine, pettegolezzi e smancerie. L’arte, che tenta di toccare la sensibilità allenata, portata sullo smartphone è persa, Ve bene se trova l’occhiata distratta di chi sfoglia per qualche secondo un catalogo dove Bacon, Haring e Morandi si susseguono mescolati all’ultimo fotografo o videomaker.

Se, come credo, ci stiamo tutti trasferendo in questo non-luogo non emozionante e non identitario, se i millennials lo abitano già da quando sono nati, non possiamo fare solo una battaglia di resistenza e tentare di sopravvivere com’eravamo e dove eravamo. Lo smartphone, come tutti gli strumenti è una risorsa non solo una droga che dà assuefazione all’impotenza della sensibilità. Dobbiamo capire come fare tesoro delle risorse che il nuovo medium ci mette a disposizione e usarle per ricostruire i ponti tra le due realtà, finché possiamo contare su sensibilità capaci di emozionare, personalità capaci di stupirsi, di agire riflessivamente e non d’impulso.
Ad esempio stiamo provando a usare il cellulare come atlante, per far mappe ricche di immagini e documenti riferiti ai luoghi che si visitano, per abituare a usare la realtà virtuale in appoggio a quella fisica e non come entità separata. E’ una professionalità nuova, in cui ci si incuriosisce e appassiona a pescare nei depositi infiniti del sapere e si riportano sul palcoscenico del web frammenti di conoscenza, li si organizza e li si racconta geograficamente, in modo che siano ben ancorati alla fisicità dei luoghi. E’ un lavoro che stiamo proponendo nell’alternanza scuola-lavoro e che sembra interessare molto i liceali. Il nuovo Genio Pontieri.

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