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Oh, c’mon

  • Pubblicato il: 10/04/2015 - 11:34
Autore/i: 
Rubrica: 
SI FA TEATRO
Articolo a cura di: 
Paola Dubini

In un articolo del 24 marzo sulla Fenice, l’Economist riconosce al teatro di Venezia e al suo sovrintendente, Cristiano Chiarot, la capacità di garantire la sostenibilità del teatro attraverso una forte attenzione al suo pubblico - costituito in buona parte da turisti - e un significativo aumento delle alzate di sipario. L’articolo pero’ non è lusinghiero nei toni: l’istituzione è di fatto accusata di diventare una Disneyland dell’Opera, di avere un repertorio troppo concentrato sui titoli di cassetta della tradizione operistica italiana, di essere monotona nella scelta dei titoli da rappresentare, e di essere conseguentemente e inevitabilmente trascurata dagli appassionati e dai migliori registi, direttori e solisti.  Commenta Paola Dubini, Centro Ask-Università Bocconi
 
 

Confesso che il recente articolo de l’Economist, mi lascia un po’ perplessa, per tanti motivi.  Contrariamente all’autore, a me pare che il processo di trasformazione della Fenice sia una storia di successo da osservare con attenzione e rispetto. Magari non replicabile, ma senz’altro interessante. Riprendo i punti trattati nell’articolo:
 
Venezia ha 60.000 abitanti e 9,8 milioni di pernottamenti di turisti nel 2013. Mi sembra evidente che il repertorio della Fenice sia condizionato dalle caratteristiche del pubblico. Peraltro, il fatto che un terzo dei biglietti sia venduto ad italiani indica che il teatro è verosimilmente attrattivo per i residenti e anche per chi avrebbe molte altre alternative per gustare un’Opera, visto che in Italia le occasioni non mancano.
 
Il centro ASK dell’Università Bocconi ha costruito un database che raccoglie informazioni relative agli ultimi 4 anni di rappresentazioni d’Opera in circa 800 teatri e festival al mondo. In questo intervallo sono stati rappresentati 1.866  titoli per oltre 63.000 rappresentazioni. I primi 10 titoli costituiscono oltre il 23% delle rappresentazioni e di questi 6 sono di compositori italiani. E’ vero che la Fenice mette in scena prevalentemente i big dell’Opera italiana: è però senz’altro in ottima compagnia, in Italia e nel mondo. Direi da questo punto di vista che il problema della biodiversità culturale è un problema comune. E anzi va dato atto alla Fenice di avere  proposto cicli di opere dello stesso compositore per avvicinare nuovi pubblici ad una maggiore varietà di titoli.
 
La capacità di far quadrare i conti è condizione di funzionamento per tutti, istituzioni culturali comprese; e il fatto di riuscirci in periodi di ristrettezze mi sembra sia encomiabile e sia indice di determinazione e di saper far convergere le energie di tutti su obiettivi comuni. E’ possibile che  il risultato sia stato ottenuto a discapito della grandiosità degli allestimenti e riducendo il ricorso a star, ma questo non significa che in futuro il teatro possa progressivamente migliorare la capacità di attrazione di grandi nomi, che guardano certamente alla reputazione, ma anche dalla consistenza dei cachet. E senza i conti a posto non si va tanto lontano: i dipendenti rimangono, gli scritturati passano.
 
L’articolo dell’Economist si apre con questa frase: “il coro e l’orchestra di un’opera non sono un costo, ma un investimento”. Questa mi sembra la frase più importante e su questa frase mi piacerebbe che l’Economist lavorasse, perché è un tema cruciale sul quale ragionare a fondo per immaginare il futuro della lirica italiana e dei teatri d’opera in generale.
I teatri sono organizzazioni caratterizzate da elevati costi fissi, e i costi di personale artistico sono una parte importante dei costi di personale. Decidere di considerarli un investimento significa decidere di voler garantire sicurezza economica a non poche persone qualificate (e questo mi pare in sé una bella cosa), poter controllare la qualità dell’esecuzione, ma anche accettare un irrigidimento della struttura di costo, il che inevitabilmente implica doversi impegnare ad aumentare il numero delle rappresentazioni, per poter spalmare i costi fissi su un maggior numero di serate e quindi ridurne l’impatto sul costo medio a spettacolo. E quindi il numero crescente di alzate di sipario è conseguenza della decisione di  investire sulla propria orchestra e sul proprio coro in presenza di risorse scarse. Inoltre, in questo spirito, mi sembra ragionevole che – date le caratteristiche del coro e dell’orchestra – le scelte di cartellone si orientino alla massima valorizzazione possibile   del mix di voci e di strumenti. E se così facendo i risultati economici migliorano, si liberano risorse da investire per attirare cantanti, orchestrali, registi e direttori via via diversi, e per proporre produzioni più rischiose dal punto di vista dell’attrattività commerciale.
 
E’ pensabile che il modello sia replicabile per le altre Fondazioni lirico sinfoniche? Forse no. Solo Roma e Firenze possono godere di flussi turistici paragonabili a quelli di Venezia. La tradizione dei teatri italiani è di essere teatri di stagione e non di repertorio e il cambiamento non può’ essere per tutti, né immediato. Però, la Fenice mostra una coerenza nelle proprie decisioni e una qualità nella sua gestione che non possiamo non riconoscere e ammirare.
 
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Paola Dubini – centro ASK università Bocconi
 
 
Giving the tourist what they want
http://www.economist.com/blogs/prospero/2015/03/opera-venice