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Nuovi Committenti a «Barca»

  • Pubblicato il: 28/09/2012 - 15:11
Autore/i: 
Rubrica: 
FONDAZIONI D'ORIGINE BANCARIA
Articolo a cura di: 
Stefania Crobe

Torino. Quando l’arte esce dai luoghi canonici e si misura con la complessità dello spazio urbano e con la societas che lo abita, gli esiti possono essere tanto diversi quanto profonda è la volontà di indagare le numerose sfaccettature e le identità multiple che disegnano la città contemporanea.
Troppo spesso l’arte nella sfera pubblica si traduce in rotatorie abitate da opere monumentali, funzionali al narcisismo politico ma che poco si misurano con il contesto. Opere di indubbio valore che, nel migliore dei casi, sono appositamente pensate per il luogo in cui vengono collocate ma che tuttavia non dialogano con il milieu sociale e culturale che le ospita.
Ma l’arte per l’arte forse non è più di questo secolo.
Nasce l'urgenza di superare l'opera site-specific in luogo di un progetto artistico che si faccia interprete non solo del luogo nella sua realtà materiale ma che sia capace di dialogare con la città in tutta la sua umana complessità, di intercettare processi di trasformazione sociale, di restituire un nuovo paesaggio, espressione di una volontà di cambiamento.

In questa direzione lavora «Nuovi Committenti», un modello innovativo per la produzione di arte per lo spazio pubblico ideato nel 1991 dall’artista belga François Hers, promosso dalla Fondation de France, introdotto in Italia nel 2001 dalla Fondazione Adriano Olivetti e oggi diffuso su scala europea con il titolo New Patrons.
Con il proposito di ristabilire un forte legame tra arte e società, Nuovi Committenti permette a chiunque – comitati spontanei di quartiere, scuole, amministratori locali, singoli individui o gruppi di cittadini – di farsi committente di un’opera d’arte destinata ai propri luoghi di vita o di lavoro, spesso con una funzione d’uso collettiva. Dall’ideazione alla produzione tutto il processo è accompagnato da un curatore o storico dell’arte nel ruolo di mediatore culturale, capace di interpretare desideri e bisogni della committenza, individuare un artista e attivare un percorso di riflessione e scelte condivise. In questo contesto l’arte spesso si misura con  processi di cittadinanza attiva  in risposta alle numerose problematicità e ai cambiamenti del tessuto urbano.
Nel contesto italiano, il programma è stato applicato per la prima a volta a Torino dal collettivo curatoriale a.titolo (Giorgina Bertolino, Francesca Comisso, Nicoletta Leonardi, Lisa Parola e Luisa Perlo) nel quartiere Mirafiori, nell’ambito del programma comunitario di rigenerazione urbana Urban 2, con la realizzazione di opere di Lucy Orta, Massimo Bertolini, Stefano Arienti e Claudia Losi.

Tra i vincitori del bando Generazione Creativa della Compagnia di San Paolo, sostenuto dalla Fondation de France, da Città di Torino, Regione Piemonte e dal Goethe Institut Turin, «Nuovi Committenti a Barca», curato da a.titolo con Maurizio Cilli, Giulia Majolino e Alessandra Giannandrea nasce dalla volontà di un gruppo di ragazzi del quartiere torinese Barca di essere protagonisti di un cambiamento per creare nuove forme di uso collettivo dello spazio pubblico. Grazie alla capienza visionaria dell’arte, un gruppo di giovani sta progettando e realizzando un centro di aggregazione giovanile attraverso una serie di workshop tenuti dal collettivo berlinese di architetti e artisti Raumlabor.
Un progetto di autocostruzione documentato con un video e un disegno che sono recentemente stati acquisiti per la collezione del Dipartimento di Architettura e Design del MOMA di New York.
I linguaggi dell'arte si fanno portavoce di una volontà di rinnovamento, offrono nuove suggestioni per indagare il presente e per scrivere il futuro. Così come lo scrittore ne Le città invisibili , l’arte nella sfera pubblica «crea» i mondi di cui tratta.

Francesca Comisso e Lisa Parola ci raccontano il progetto a Barca e ci parlano di arte, sfera pubblica e di alcuni dei progetti realizzati a 15 anni dalla nascita di a.titolo. Ma, in un clima di incertezza e contrazione di risorse, in cui manca una politica culturale forte, raccontano anche di quanto sia difficoltoso oggi avere una visione del proprio futuro in un’ottica europea.

Nuovi committenti si conferma un modello adattabile alla realtà torinese, dall’esordio a Mirafiori Nord nel 2001, è ora la volta del quartiere Barca. Come nasce il progetto?
Il progetto a Barca testimonia del nostro modo di lavorare in chiave modulare e con la volontà di dare continuità ai progetti. Si tratta infatti di uno degli esiti di situa.to, un progetto ambizioso, un po’ corso di formazione, un po’ laboratorio e osservatorio urbano, che è iniziato nel 2010 nell’ambito di Torino European Youth Capital, sostenuto dalla Regione Piemonte con il contributo di Compagnia di San Paolo. Attraverso situa.to ci proponevamo, insieme con Maurizio Cilli, di sperimentare nuovi strumenti di lettura del territorio urbano, all’incrocio tra discipline diverse, per disegnare una nuova mappa in grado di raccontare una città in trasformazione, una Torino «che c’è ma ancora non si vede», progettando azioni, interventi d’arte e narrazioni ideate dai giovani partecipanti, ricercatori, artisti e creativi. Ci interessava proporre un modello alternativo alla logica del grande evento attivando invece progettualità sperimentali che potessero insediarsi, affondare le proprie radici e generare nel tempo ulteriori iniziative.
A partire da un bando abbiamo dato vita a un gruppo interdisciplinare di «ricercatori», con formazioni che comprendevano la sfera creativa e quella delle scienze sociali, umanistiche e urbane, affinché questa città fosse guardata, esplorata, attraversata da giovani con sguardi e percorsi formativi diversi. situa.to è stato un vero e proprio laboratorio in cui si sono avvicendati artisti interessati al tema della città e dell’arte pubblica, come Armin Linke o Stalker Osservatorio Nomade, con sociologi, attori, filosofi, musicisti, urbanisti. Dopo la fase formativa, la città e la sua area metropolitana sono state divise in trenta zone e ciascuno dei partecipanti, con i propri mezzi e i propri linguaggi, ha iniziato una ricerca sul campo per individuare una situa: un luogo e un modo di abitarlo che rivelassero un cambiamento in corso, che richiedessero di essere osservati, raccontati. Luoghi con delle potenzialità.
L’eterogeneità del gruppo ha fatto sì che lo sguardo sulla città fosse caleidoscopico, molteplice e frammentato tra le pieghe di un territorio che certi luoghi li lascia andare e altri li fa sorgere.
La ricchezza del lavoro di analisi sui quartieri svolto dai giovani ricercatori traceur – così chiamati, come gli esploratori della disciplina urbana del parkour, per non usare l’espressione abusata e controversa di «creativi» - ci ha spinti poi a passare, in modo un po’ irragionevole, dalla fase di formazione e ricerca a quella di produzione. Non volevamo disperdere la ricchezza di alcune di quelle intuizioni - soprattutto in tempi di grave crisi culturale oltre che economica – e quindi abbiamo fatto lo sforzo di cercare le risorse per realizzarne alcune: un documentario sugli ultimi mesi di vita delle Officine Grandi Motori e dei suoi nuovi abitanti, un intervento letterario sui muri di Mirafiori, un monumento alle operaie della Superga, un sipario per il nuovo teatro di Settimo Torinese, un intervento al Museo della Resistenza e altri progetti tra Nichelino e Falchera che, come nel quartiere Barca, si sviluppano a partire da una committenza dei cittadini (in questi casi, la commissione scientifica della Fondation de France ha scelto di sostenere il nostro lavoro di mediazione per attivare progetti secondo la metodologia di Nuovi Committenti).
Il portico vuoto di via Anglesio, nel quartiere Barca, è il luogo dove Giulia Majolino, giovane antropologa, ha individuato una «situa», un luogo con un ricco tessuto relazionale in una zona con scarse opportunità di crescita culturale, soprattutto per i giovani. Nel 2011 qui è iniziato un percorso che ha coinvolto dapprima le scuole primarie, con laboratori sulla percezione del quartiere progettati e tenuti da Giulia Majolino e Alessandra Giannandrea, anche lei antropologa, con il dipartimento educativo della Fondazione Merz, che ha contribuito in tal modo al progetto. A questo primo lavoro è subentrato quello del gruppo berlinese di architetti e artisti Raumlabor che, nel corso di tre workshop di autocostruzione collettiva con materiali di recupero hanno dato vita, con i giovani di Barca, a un cantiere di idee e nuove pratiche per la riappropriazione dello spazio pubblico. Ne è espressione la committenza, da parte di un gruppo di partecipanti, di un centro per i giovani, immaginato in due negozi sotto il portico, chiusi da anni. In collaborazione con la Circoscrizione 6 abbiamo ottenuto dal Comune, proprietario dei locali, l’uso gratuito, ed è iniziato così un lavoro collettivo per la progettazione e il ripristino funzionale degli spazi, tuttora in corso. Con assi da ponteggio, vecchi mobili di legno, porte, stoffe sono stati realizzati negli ultimi mesi arredi mobili trasformabili e una serie di sedie e altri manufatti, esempi di una possibile attività del futuro centro giovanile, all’incrocio tra creatività e microeconomia, nell’ottica della sua sostenibilità e autonomia.
L’attenzione da parte del MOMA a questo progetto, tra moltissimi altri realizzati in tutto il mondo da Raumlabor, oltre a gratificarci ci ha offerto l’opportunità di alzare il livello di attenzione degli enti locali, ampliando la rete dei soggetti coinvolti e, di conseguenza, la possibilità di costruire, pezzo dopo pezzo, un’economia di scala.

Quale la risposta del territorio entro il quale operate ? Oggi si parla molto di arte nello spazio urbano, c’è forse un uso/abuso dei termini partecipazione e arte pubblica?
E’ un tema sul quale ci siamo confrontate spesso. Sicuramente in questi anni c’è stata una confusione di lessico e pratiche che ha visto partecipazione e animazione come sinonimi, soprattutto nell’ambito delle politiche culturali. Una confusione che nasconde l’idea che siccome si opera spesso in un contesto periferico, a volte socialmente svantaggiato, sia necessario «animare», pensando ai cittadini come soggetti in attesa di chissà quale visione. Quello che ci interessa è la capacità dell’arte di aprire nuovi scenari, spazi di immaginazione e di possibilità, in cui possono abitare il cambiamento e nuovi modi di vedere e vivere i luoghi del quotidiano, dell’ordinario, spesso vissuti solo in relazione alla funzione per cui sono stati creati.
A volte, proprio nei casi in cui il progetto artistico è informato da istanze context-specific, viene confuso con quello di rigenerazione. In realtà sono settori con obiettivi molto differenti. L’arte non ha come scopo, o come possibilità, quella di risolvere problemi sociali ma sicuramente permette uno spostamento delle posizioni, dei punti di vista e dei ruoli perché è uno strumento flessibile che rovescia e modifica.
Partiamo dal presupposto che ogni singolo componente di una comunità «che si crea» per una specifica occasione, o di una comunità che le preesiste, sia portatore d’immaginari e azioni che nel processo che conduce alla realizzazione dell’opera d’arte riescono a dar vita a un luogo, un oggetto o una situazione in grado di «muovere»: cambiare la posizione dello sguardo, contaminare una situazione data o modificare le relazioni che lo attraversano. L’importanza per noi di «quello che resta», ci ha fatto prediligere interventi con ambizioni di permanenza o caratterizzati da una temporalità estesa, affinché l’esperienza artistica non fosse assimilabile a forme di intrattenimento episodiche.

Non una ricetta, quindi, ma un’esperienza di crescita, anche civica, in un’ottica di bene comune?
L’arte non è una ricetta, ogni contesto urbano è differente e va osservato con un grande senso di responsabilità quando si decide di operarvi. Mai come oggi è necessario attivare processi di consapevolezza e di attenzione, che con l’arte si declinano in molti modi possibili: nel guardare come uno spazio è vissuto, osservarne gli equilibri, i passaggi, le direzioni, ma anche conoscerne la storia e provare a riscriverla in relazione all’esistente. Si tratta di attivare una sorta di reciprocità di tempi e situazioni che attiva un «processo civico e culturale». Il progetto che stiamo realizzando nel quartiere torinese Barca ne è un esempio. S’inscrive tra un «vuoto urbano» - un porticato dominato da una sequenza di saracinesche quasi sempre abbassate, simbolo di un sentimento di rinuncia e abbandono – e una comunità insediata a pochi metri di distanza intorno a un chiosco. Un luogo vicino alla fermata dell’autobus, in un’area verde dove molte persone, soprattutto giovani, sostano e s’incontrano. Un posto vivo e vivace, in un’area che si percepisce come isolata dal resto della città, con un’effettiva carenza di servizi e proposte culturali per i giovani. L’arrivo di Francesco Apuzzo e Jan Liesang, del collettivo  Raumlabor, accompagnati da altri giovani artisti, architetti, creativi giunti da Berlino, Roma, Genova, e da altri ragazzi del quartiere e di altre zone della città - studenti, lavoratori, curiosi - è servito da detonatore. Decine di persone hanno contribuito a ridisegnare quel luogo con nuovi segni che sono divenuti espressione di un rinnovato senso di appartenenza, animato da idee e progetti. Questo genere di processi può avvenire solo se nelle persone si instaura un desiderio d’azione, che può essere mosso dalla curiosità e diventare passione. In città in crisi è infatti necessario inventare nuovi strumenti per riaccendere gli immaginari e provare a proiettarsi in un futuro. A Barca l’azione, nel suo farsi, ha intrecciato l’ideazione e l’immaginazione, dando vita alla trasformazione del luogo: sedute che sono come isole intorno ad alberi e colonne, geometrie fragili di vegetazione tra i volumi del portico, una casa a forma di stella da cui guardare il cielo e l’intorno, due serrande aperte e un centro giovanile tutto da creare.
Ora i ragazzi di Barca sentono una responsabilità verso questo luogo, ma non gliela abbiamo certo «insegnata» noi. Tra la logica del «non si può fare nulla» o «del posso fare tutto perché non mi appartiene» si è aperta una terza via in cui la possibilità di fare si coniuga a un senso di appartenenza, in una sorta di «domesticità» condivisa dello spazio pubblico, un modo di sentirlo come «bene comune».
L’agire insieme può generare straordinari cambiamenti, anche se è importante avere coscienza di quanto questi processi siano fragili e vadano curati, alimentati.

Il progetto Nuovi Committenti a Barca è stato finanziato nell’ambito del bando Generazione Creativa dalla Compagnia di San Paolo, uno dei capisaldi per il sostegno al non profit per la cultura. Con la contrazione delle risorse e la riduzione dei finanziamenti alla cultura è stato chiesto di «tirare la cinghia». Quali ripercussioni sulla vostra realtà? E’ possibile avere una visione e programmare nel tempo?
In effetti Compagnia di San Paolo aveva già creduto nel progetto situa.to e, molti anni fa, aveva contribuito, con la Fondazione Adriano Olivetti, alla prima attivazione a Torino di Nuovi Committenti. Proprio rispetto a questo modello di produzione d’arte, negli ultimi due anni abbiamo ricevuto il sostegno della Fondation de France di Parigi, che ci ha riconosciuto il ruolo di interlocutori importanti in Italia, consentendoci di sperimentare nuove possibili applicazioni di questo processo di creazione artistica e culturale suscitato da una domanda. Grazie al loro sostegno abbiamo potuto attivare il primo workshop con Raumlabor, nel giugno 2011, da cui è nata poi la committenza di un centro per giovani e i successivi workshop e fasi di lavoro. È’ stata e continua a essere molto preziosa la collaborazione con il Goethe-Institut Turin e la sua direttrice Jessica Kraatz Magri, con la quale abbiamo condiviso l’invito a Raumlabor e molte riflessioni sulla loro metodologia di lavoro. Tutto ciò per dire l’importanza, non solo in tempi di crisi, di operare in una prospettiva di sistema, che in questo territorio è ormai una pratica piuttosto diffusa e per noi una modalità che continueremo ad alimentare nel prossimo futuro.
in dall’inizio abbiamo realizzato progetti i cui interlocutori sono stati gli enti locali. Tuttavia, per la nostra attività, non abbiamo mai ricevuto finanziamenti strutturali, ma solo risorse destinate ai singoli progetti, e pertanto abbiamo dovuto sostenere con altri fondi, derivanti dal nostro lavoro, l’insieme complessivo delle nostre attività, che comprende anche la messa a punto e lo sviluppo di nuove progettualità e il necessario aggiornamento. Questo ha da sempre pesato sulla sostenibilità del nostro lavoro, soprattutto nel momento in cui, come negli ultimi anni, i progetti si sono fatti più complessi e articolati. Mentre l’Europa riconosce nelle realtà indipendenti e sperimentali come la nostra un’opportunità per arricchire le politiche culturali del paese, in questo ambito l’Italia ha dei ritardi e la mancanza di politiche specifiche non permette una visione programmatica delle attività di lungo periodo. Certamente pesa sul nostro futuro la riduzione progressiva delle risorse, determinata dalla crisi in atto, da parte degli interlocutori istituzionali con i quali da sempre lavoriamo e, per le stesse ragioni, la difficoltà oggettiva di trovare nuovi interlocutori economici in grado di condividere i nostri progetti e di consentirci di svilupparne di nuovi.
Per molti anni abbiamo lavorato prevalentemente al di fuori degli spazi istituzionali in cui l’arte viene tradizionalmente fruita e quando, nel 2010, abbiamo assunto la direzione artistica del CESAC, il Centro Sperimentale per le Arti Contemporanee di Caraglio, la crisi era già scoppiata nei suoi aspetti più vistosi e gravidi di conseguenze nefaste, e la rarefazione dei fondi e il bisogno di ripensare la programmazione in termini di sostenibilità - cosa che già faceva parte delle nostra storia – era urgente. Dal 2010 è diventato cruciale chiedersi che cosa volesse dire produrre cultura in un format espositivo e questo interrogativo è diventato il centro di un nuovo progetto. Tutta la nostra programmazione, intitolata «Fare Museo», ruota intorno a una dimensione attiva e attivante dei luoghi. In questa logica abbiamo portato Nuovi Committenti dentro il «museo», proponendo al pubblico di lavorare con noi alla messa a punto del tema per una mostra, «Mente locale», che abbiamo recentemente realizzato con un gruppo di residenti del territorio, nell’ambito di un progetto transfrontaliero, «VIAPAC Via per l’arte contemporanea» all’interno del programma ALCOTRA Italia-Francia 2007-2013.
In questo contesto, l’obiettivo principale è oggi quello di riuscire ad attivare partnership con altri paesi europei ed extraeuropei. Tuttavia la mancanza di politiche pubbliche orientate in forma continuativa e organica al contemporaneo, fa sì che l’Italia sia poco credibile rispetto all’Europa, la quale richiede progettualità e budget almeno biennali ma più spesso triennali. Nelle sue ricerche recenti, Pier Luigi Sacco ha sottolineato il pericolo di un sempre maggiore isolamento dell’Italia rispetto al contesto internazionale e l’urgenza di posizionarsi sugli snodi dei flussi economici dell’economia culturale. Questo posizionarsi, nel nostro settore che è quello dell’arte contemporanea con risvolti sociali, significa diventare soggetti credibili ed essere in grado di costruire reti ed economie in modo indipendente ma con la certezza di avere interlocutori istituzionali in grado di riconoscere il valore delle proposte, non perché «belle», «buone» o «giuste» ma perché coerenti con le linee culturali sulle quali altri paesi in crescita, pensiamo alla Polonia o al Brasile, hanno investito accettando che il «rischio» - che comporta innovazione e sperimentazione – diventasse valore, nell’ambito di politiche capaci di immaginare percorsi nuovi oltre la crisi.

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