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Lo Stato delle (infra)strutture. Partendo da Genova

  • Pubblicato il: 15/09/2018 - 08:02
Autore/i: 
Rubrica: 
PAESAGGI
Articolo a cura di: 
Paolo Castelnovi, architetto paesaggista

La cause del disastro di Genova sono molto profonde e segnalano crepe devastanti nel ruolo dello Stato come imprenditore strategico, un ruolo a cui siamo abituati dall’Unità d’Italia ma che ormai ha perso vela e timone. I cambiamenti necessari per risanare la gestione delle infrastrutture penetreranno nel cuore della struttura dello Stato. Una riflessione del Prof. Paolo Castelnovi, architetto, genovese.

 
Quando, nel dicembre del 1853 si inaugura la ferrovia Torino-Genova, lo Stato dei Savoia esulta per l’impresa della prima connessione italiana tra due grandi città, realizzata con genio e fatica, soprattutto nel tratto appenninico con il primo tunnel di grande dimensioni. Cavour ha spinto e agevolato la linea che dà uno sbocco sul mare alla pianura e a Torino, in modo che le nuove produzioni industriali possano interagire in mercati internazionali, come si conviene a chi ha programmi di sviluppo strategici di lungo periodo. Sin qui il libro scolastico.
E’ meno noto che Cavour riprende il programma di un collegamento tra le due città che era stato promosso da imprenditori genovesi, vent’anni prima, ansiosi di trarre vantaggio dalla fine dell’isolamento della Repubblica marinara e dall’inserimento forzato di Genova nello Stato sabaudo.
Ma è ancora meno noto che nello stesso 1853 Cavour promuove la nascita dell’Ansaldo, industria siderurgica navale e meccanica genovese, investita dal Governo del compito di ridurre la subalternità del Regno alle produzioni inglesi di navi e locomotive, che nel 1857 riorganizza la Cassa Depositi e Prestiti (fondata nel 1850) indirizzandola a finanziare le opere strategiche come le ferrovie, e che nel 1859 istituisce la Scuola di Applicazione per gli Ingegneri, prodromica del Politecnico (che si istituisce oltre 50 anni dopo).
Il modello di governo di Cavour affronta la modernizzazione del Paese come un progetto sistemico, che non rifiuta la complessità ma anzi ne fa uno strumento per raggiungere risultati attraverso un insieme di approcci coerenti e indirizzati allo stesso obiettivo. Coordina le forze pubbliche e private e mette le risorse del paese in condizioni di affrontare un programma complesso. Tout se tien: la macchina per assicurare la disponibilità delle risorse di investimento, la via ferrata, la fabbrica per il materiale rotabile, la scuola per progettare, gestire, mantenere il nuovo servizio strategico.
E’ in questa visione del mondo, dei processi storici e delle politiche per governarli che ha senso la parola “struttura”, che significa - nelle discipline applicate - “un sistema di relazioni che ha regole interne di funzionamento e di adattamento”. Solo se si ha bene chiaro che cosa significa “struttura” prende senso la parola “infrastruttura”, che è il servizio primario ai nodi della struttura, in quel caso assicurando il funzionamento delle connessioni tra le città e tra i soggetti produttivi.
 
L’Italia unitaria fa propria la visione sistemica cavouriana e disegna strategie per consolidare nel tempo i collanti di un paese raffazzonato in pochi anni e unito di fatto, nel 1861, solo dalla lingua ufficiale.
Le due principali strategie infrastrutturali sino al 1900 sono racchiudibili in slogan: una scuola in ogni paese, per alfabetizzare tutti; una rete ferroviaria che raggiunga ogni capoluogo. E’ uno sforzo enorme, affrontato dallo Stato liberale ricorrendo pesantemente alle risorse private, ma imponendo senza tentennamenti la prevalenza dell’interesse pubblico, a partire dagli espropri fino al massiccio investimento in personale qualificato.
E’ una politica strategica di lunghissimo periodo, che parte costruendo gli strumenti per fare e per gestire indefinitamente, come i costruttori di cattedrali partivano dal progetto di ponteggi e di argani prima che di guglie e absidi.
Lo Stato moderno, postnapoleonico, cura la completezza del funzionamento delle strategie intraprese sapendo che, come nelle strategie militari, il successo dipende dal controllo dell’insieme degli eventi. Le competenze tecniche vengono formate da zero, le regole costruttive vengono minuziosamente dettagliate, la procedura di controllo, applica scientificamente il criterio di precauzione per contenere i rischi e, last but not least, la macchina gestionale e manutentiva, sulla quale si investe in organizzazione e personale in misura addirittura superiore alla costruzione.
Il programma strategico è sostenibile per definizione: l’opera pubblica è pensata “per sempre” e accanto alla costruzione sono messi in atto i provvedimenti per la manutenzione e la gestione indefinita dell’infrastruttura.
Per un secolo essere impiegato dello Stato, a qualsiasi livello, fu fattore di distinzione e di rispetto. Dopo oltre 100 anni godiamo ancora dell’impostazione di una macchina statale PER FARE e PER GESTIRE, che non badava al bilancio costi-benefici della singola opera, ma agli affetti sistemici di progetti strutturali.
Con questo criterio sono state impostate altre strategie di interesse nazionale anche nel dopoguerra, come quella per l’energia elettrica, frutto di un laborioso lavoro di unificazione e messa in rete di iniziative private locali.
(Tutto ciò prima di degenerare nella danza delle privatizzazioni, che ha poi coinvolto anche le ferrovie, portando, oltre a numerosi vantaggi, anche la disastrosa perdita dell’unitarietà dei fini, per cui ciascun pezzo della struttura compete con gli altri pezzi invece che cooperare, come mostra l’incredibile strategia di gestione di Trenitalia che assalta il mercato di Alitalia, distruggendola, invece che assicurare le funzionalità metropolitane che in tutta Europa sono compito delle aziende ferroviarie.)
 
Invece per le autostrade la storia è stata diversa, per la concomitante evoluzione di numerosi aspetti della cultura politica e tecnica del paese.
I progetti dei tronchi sono stati messi a punto sino agli anni ’60 entro una strategia di interesse nazionale ma da allora sono stati promossi come fattore di sviluppo regionale o addirittura provinciale. Nel comizio elettorale o all’inaugurazione l’autostrada non viene più presentata come pezzo coerente di un disegno utile alla struttura del paese, ma come vittoria dell’una o l’altra provincia o lobby economica, che sono riusciti a ottenere finanziamenti dallo Stato per il proprio sviluppo.
D’altra parte alla fine della tensione unitaria rispetto al territorio si accompagna la crisi del ruolo imprenditoriale dello Stato. Crolla la fiducia nella sua capacità di essere il più importante imprenditore e il più robusto gestore delle opere di interesse generale. L’interesse pubblico non è più discriminante e si trascura il fatto che l’imprenditore privato cura i propri interessi anche quando è incaricato di realizzare o gestire servizi pubblici.
Certo contribuisce la tecnologia richiesta per le autostrade, così vicina al settore delle costruzioni, irriducibile in Italia all’interesse pubblico, fatto sta che proprio nel settore delle opere pubbliche e stradali si constata la nuova stagione dei funzionari e degli amministratori, che hanno perso interesse a partecipare a grandi strategie di interesse generale e preferiscono nicchie, piccole o grandi, di interessi privati. Tant’è che da decenni i funzionari Anas sono oggetto di decine di processi penali, ed è “normale” che Ministri dei Lavori pubblici vengano coinvolti in affari contrari all’interesse di Stato, che riguardano le strade.
 
Un regime irresponsabile di concessioni di cui vergognarsi (tanto che sono segrete) è l’esito indecente di questo cambio di rotta, che comporta coerentemente una serie di mancanze disastrogeniche: il rapporto con il concessionario si attua senza una strategia discussa e condivisa di integrazione territoriale, senza un protocollo di gestione che metta in sicurezza l’interesse pubblico, senza un regime di controlli e di verifiche di prestazione affidabile in automatico, a prescindere dalla buona volontà dei controllori.
Nella distanza tra l’impostazione sistemica e di pubblica utilità della rete ferroviaria ottocentesca, oggi perente, e l’impostazione privatistica e settoriale dell’insieme delle autostrade, oggi vincente, si legge bene a che punto sia arrivato il processo di destrutturazione dello Stato, in corso da oltre 50 anni.
 
Il crollo del sistema etico, culturale e politico che animava lo Stato stratega e imprenditore è ben leggibile, ma è rimosso dal dibattito pubblico per ragioni che andrebbero studiate.
 
Oggi ormai si assiste nelle istituzioni ad una sorta di gioco dei quattro cantoni dove ciascun attore, anche onesto, rimbalza scaricando le proprie responsabilità, poiché non solo è diventato legittimo ma è quasi obbligatorio:
1 non avere come impegno implicito un’unitarietà dei fini strategici per il bene comune ma al contrario far prevalere l’utilità marginale immediata, che in ogni caso è privatistica (ormai è ovvio che l’economia rispetti gli interessi delle lobby, la politica si finalizzi agli effetti elettoralistici del proprio partito, la competenza si ritagli lo specifico campo settoriale in cui non si hanno confronti e non metta il becco sul resto);
2 consolidare istituzionalmente una cultura del non-fare: leggi e regolamenti inducono il miglior dirigente dello Stato a non risolvere il problema, qualsiasi problema, ma semmai a complicarne ogni possibile soluzione. Questo aspetto unito al precedente, comporta come corollario che il controllo (da quello dei tecnici a quello della magistratura a quello economico) non è più un pezzo del processo di costruzione strutturale delle strategie, ma è un aspetto a se stante, indipendente dal risultato complessivo che genera, che così ovviamente è entropico e aumenta la propensione al non-fare;
3 porre le istituzioni in concorrenza e non in cooperazione, in particolare tra enti territoriali, che sono legittimati a bloccare ogni iniziativa di interesse generale, essendo quella diventata debole e senza difensori agguerriti o essendo ormai gravata da interessi di settore e privatistici che fanno dubitare del valore pubblico di insieme;
4 prendere decisioni con orizzonte pochi mesi o pochissimi anni, evitando ogni altra decisione che comporti impegni di lungo periodo, a cui consegue come corollario che nessuno si occupa più della sostenibilità delle opere, visto che le contraddizioni si manifestano sul medio-lungo periodo e che non ci si interessa in fase progettuale della gestione e della manutenzione, che avviene sempre alla rincorsa, come onere da minimizzare.
 
Quindi, in questo brodo di cultura, è ovvio che accadano fatti e non-fatti di questo genere:

  • La rete autostradale non viene presa in considerazione come infrastruttura nazionale che necessita di integrazioni e completamenti nel suo insieme. Non si definisce un piano di investimenti di medio lungo periodo, anche per evitare che diventi una mangiatoia di corrotti: meglio non fare. Si fanno solo le opere pretese da territori forti: ad esempio si fanno le pedemontane padane ma non si fa nulla per il superamento di nodi critici come Genova, città sempre meno forte. La realizzazione della Gronda viene declassata a questione di interesse locale mentre comporterebbe un’alternativa efficace al superamento della città sull’asse est-ovest, rispetto all’attuale tratto che comprende il Ponte Morandi, da ridurre a superstrada urbana (quindi non indispensabile alla rete primaria e interrompibile per ogni necessaria sistemazione).
  • I tratti esistenti si danno in concessione perché si ritiene lo Stato incapace di fare impresa e di gestire le infrastrutture. L’amministratore eletto presume che l’inefficienza dello Stato (quello Stato che dovrebbe partecipare a gestire) sia tale da assegnare a privati una risorsa che garantisce il 10% di utili: un ammontare che potrebbe finanziare il completamente della rete.
  • La concessione non specifica gli obiettivi di interesse comune e non dettaglia i requisiti delle opere di manutenzione straordinaria necessarie, rimandando il controllo di qualità e la sicurezza di ogni tratto della rete a procedure standard che non riguardano la sostenibilità della rete nel suo insieme, ma ogni singolo pezzo, e a programmi (di breve periodo) che vengono presentati dal concessionario ad una commissione numerosa in cui ciascuno rappresenta specifici interessi.
  • Per il Ponte Morandi, che si sa è in degrado, non si attivano monitoraggi sistematici, ma si conta su una relazione che stima la durata sino al 2030. Come chi cade dal grattacielo pensa “per ora tutto bene”, per ora si progettano interventi di rattoppo (riducendo l’assottigliamento progressivo dei cavi che reggono il ponte strallato): le regole di ingaggio del concessionario lo consentono e comunque anche ANAS fa così, non avendo disponibilità di risorse programmabili per interventi strutturali.
  • Le ragioni per cui si fa un intervento di manutenzione straordinaria sono tecniche e non interessano i commissari, mentre i tecnici del concessionario sanno che dovranno essere convincenti per gli aspetti indiretti, quelli sì oggetto di diatribe tra commissari (ciascuno interessato ai costi, ai disagi dei cittadini,  alle limitazioni del traffico,….).
  • Quindi ci si attrezza per opere di consolidamento dei cavi di cui ci si preoccupa soprattutto che non ostacolino il traffico, dato che non ci sono alle viste alternative all’uso incessante del ponte.

 
E, sino al 14 agosto, si va a dormire pensando, un attimo prima di prendere sonno… certo che chi dovrà sistemare davvero il ponte avrà un bel problema
 
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Ph: Il ponte in costruzione (dalla rivista Informes de la Construcción Vol. 21, nº 200 Mayo de 1968) pubblicata nel blog www.studiotecnicopagliai.it