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Le Sponsorizzazioni. Cosa accade a livello internazionale?

  • Pubblicato il: 16/12/2011 - 10:41
Rubrica: 
DAL MONDO
Articolo a cura di: 
Anna Somers Cocks
TATE Modern

La ragione per la quale le istituzioni culturali italiane raccolgono meno fondi privati rispetto ai musei stranieri interpellati in questa inchiesta, riguarda l’essenza della relazione italiana tra Stato e cittadini e tra lo Stato e la cultura. Fino a quando questo rapporto non sarà profondamente cambiato – dal punto di vista normativo, della formazione dei dipendenti pubblici e della stessa società – sarà impossibile per le istituzioni culturali italiane iniziare a finanziarsi in misura significativa dal settore privato. Sia negli Stati Uniti che nel Regno Unito, le istituzioni culturali, tra cui i musei, hanno un grado di autonomia che nessuna istituzione pubblica culturale italiana può immaginare. E' significativo che in Francia, dove il sistema di intervento pubblico nella cultura è sempre stato analogo a quello italiano, il Louvre sia stato dotato nel 1993 di un’indipendenza gestionale sulla scia del modello britannico, e che sia riuscito da allora a cambiare completamente le proprie fonti di finanziamento. I musei nazionali del Regno Unito non appartengono allo Stato, ma ai loro «Board of Trustees», che rispondono al governo solo per le collezioni e per il bilanciamento dei conti. In ogni altro aspetto sono liberi di investire il denaro pubblico come meglio credono, sviluppare politiche autonome, stringere partnership. Negli Stati Uniti la situazione è molto simile, con una maggiore indipendenza dai finanziamenti pubblici. Questa autonomia significa che i musei possono, ad esempio, costituire società for profit per gestire le loro attività commerciali, i cui profitti sono poi donati al museo con una deducibilità fiscale totale. A differenza delle istituzioni culturali italiane, non sono ostacolati da regole burocratiche che li costringono a mettere in gara ogni attività e sono liberi di tenere ogni centesimo che raccolgono da eventi, attività commerciali, donazioni. Questo è un forte incentivo ad essere attivi e attraenti.

Per stimolare la diffusione di una mentalità aperta alla raccolta fondi, oltre 20 anni fa il governo britannico ha lanciato il concetto di «challenge funding»: il denaro pubblico o i finanziamenti della lotteria sono resi disponibili alle istituzioni culturali solo a condizione che le stesse siano riuscite da sole a raccogliere una quota significativa del finanziamento totale presso i privati. Questo ha almeno due conseguenze virtuose: libera l’istituzione dall’atteggiamento all’elemosina verso fondi per la cultura, la incoraggia, invece, a cercare finanziamenti in modo autonomo ed elimina automaticamente i progetti per i quali c'è poco o nessun sostegno reale da parte della comunità. In breve, il governo aiuta coloro che si aiutano.

Nessuno dovrebbe concludere da questo discorso che le istituzioni culturali debbano vendersi all’anima del commercio, né che debbano generare profitti. Senza la percentuale di finanziamento pubblico che il Louvre e i musei del Regno Unito ricevono e, nel caso dei musei degli Stati Uniti senza i proventi dai loro ingenti fondi di dotazione, nessuno di loro sarebbe economicamente sostenibile. Quello che, però, hanno in comune con il settore commerciale è che sono obbligati a offrire un buon servizio e a corteggiare il loro pubblico. Questo vale per ogni attività, dalla qualità del caffè al ristorante alla programmazione educativa. Anche se quest'ultima non genera proventi, è la prova che il museo sta raggiungendo i bambini, gli anziani, i giovani a rischio (la Dulwich Picture Gallery, nel sud di Londra, incoraggia i giovani a comporre disegni e dipinti sulle opere del museo con programmi educativi specifici). Voler agire un ruolo sociale è la ragione di questa strategia che porta fondi: gli individui e le aziende che donano alle istituzioni culturali non vogliono fare un affare con questa esperienza, ma qualcosa che li porti in un altro mondo, migliore. Ecco perché l'associazione del nome dell’impresa con quello del museo crea reputazione e fa sentire il loro personale orgoglioso di far parte dell'organizzazione per cui lavorano.

Una delle incomprensioni degli ultimi anni è il modo in cui la parola «sponsor», che in inglese è del tutto positivo, con una connotazione altruistica, in Italia è venuto a significare soprattutto un’opportunità di pubbliche relazioni, un «do ut des».
E inconcepibile, per esempio, che una delle imprese che donano al V & A, al Louvre o al MoMA, possa richiedere di apporre la propria pubblicità sulla facciata del museo, come abbiamo visto a Venezia.
Ciò che i donatori ricevono in cambio della loro donazione, oltre ai soliti ringraziamenti, è la possibilità di sentirsi parte di un club, quasi in una «confraternita».
I musei danno spesso ai donatori l’accesso a salotti appositamente riservati, organizzano viaggi guidati da esperti in compagnia di altri donatori, danno consigli sulle acquisizioni e sono persino pronti a cedere un po' del loro potere a privati qualificati.
La Tate, per esempio, ha creato «Circoli di raccolta fondi» per i Paesi in cui si sta espandendo, come il Medio Oriente e l’America Latina: scopre chi sono i collezionisti del territorio, li invita ad aderire al Circolo (al quale i collezionisti partecipano con una donazione annuale di un minimo di £ 5.000) e li trasforma «negli occhi e nelle orecchie dei curatori», che sono troppo occupati per poter viaggiare e visitare gli studi degli artisti e le mostre di tutto il mondo.

Al MoMa, diverse attività del museo hanno il loro gruppo di sostenitori – gli «Amici del Dipartimento Educazione», gli «Amici dei disegni contemporanei» e così via – ognuno con un curatore proattivo che conosce tutti i membri per nome, organizza eventi, dà consigli sulle loro collezioni e attira nuove donazioni in denaro e in opere. Va da sé che tutto questo accade con totale trasparenza. Ogni dettaglio delle attività di questi musei è disponibile online sulle relazioni annuali: dal prezzo pagato per le nuove acquisizioni allo stipendio del direttore, al nome dei benefattori, a meno che non vogliano restare anonimi. Naturalmente, ci sono agevolazioni fiscali per i donatori, ma, a prescindere dal fatto che ci sono pregiudizi sbagliati su quanto siano generosi, soprattutto negli Stati Uniti, è un grave errore pensare che i donatori siano il motivo principale grazie al quale le istituzioni straniere riescono a raccogliere fondi. Molto più importante è la qualità delle relazioni umane costruite nel tempo. Finché anche in Italia non ci saranno le condizioni per incoraggiarle, le istituzioni culturali dovranno lottare sempre di più per la sopravvivenza, essendo finito il ruolo assistenzialista dello Stato.

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