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Le fondazioni servono? Per creare le condizioni per immaginare

  • Pubblicato il: 23/01/2014 - 23:52
Autore/i: 
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Luca Dal Pozzolo

Sugli assetti istituzionali più opportuni per gestire il patrimonio culturale sono discesi fiumi d’inchiostro, fino quasi a nascondere l’evidenza che non esistono modelli istituzionali che mettano al riparo da risultati fallimentari e distorti e, per contro, che alcuni casi di successo sono ancora dovuti a sforzi eroici per piegare istituzioni inadeguate a un’operatività quotidiana. Rimane l’esigenza di macchine gestionali e organizzative efficienti, per riservare gli atti eroici alle grande sfide e non all’invenzione di elaborate strategie per pagare forniture di pochi euro.
Ripartendo dallo stato di fatto non si può non registrare come il Decreto Valore Cultura-agosto 2013, provi a mettere in campo strumenti per fronteggiare a un tempo emergenze e gestione corrente, anche se occorrerà attenderne gli impatti prima qualsiasi valutazione. La situazione da affrontare non è facile: lo Stato arretra in tutta la gestione del patrimonio, sulla spinta dei tagli e dei ridimensionamenti della spesa pubblica. E’ uno scandalo, è vero, e bisognerà che vi sia in futuro un’attenzione economica diversa verso il patrimonio. Ma è anche un’opportunità per ragionare: davvero le sole risorse pubbliche potrebbero mantenere il nostro patrimonio? Davvero l’organizzazione delle Soprintendenze pensata da Bottai sulla soglia della II Guerra Mondiale può bastare?
No, ovviamente e la crescita della spesa pubblica ispirata dal conservare tutto è un’ipocrisia destituita di ogni realismo: noi per primi saremmo contrari se dovessimo al contempo reperirne le risorse negli altri settori delle politiche pubbliche.
Non esiste nessuna altra strada che non sia ri-immettere nel ciclo economico tutti i beni che possano giovarsi di una convergenza di interessi pubblici e privati, che possano essere abitati, utilizzati, vissuti e valorizzati. E’ una banalità, ma attiva una cascata di conseguenze di grande complessità. In primo luogo occorrerà riconoscere che l’imperativo di conservare “senza se e senza ma” non potrà che essere riservato a una fattispecie limitata di casi (è sempre stato così, ma si preferisce fare gli ingenui e accettare che tutti i casi d’incuria e d’abbandono siano eccezioni intollerabili e non la ricaduta di politiche che non tengono conto della sostenibilità economica). Per tutti gli altri casi la strada verso la conservazione, l’uso e la valorizzazione sarà lastricata a ogni passo di “se e di ma” e anche di «forse», di condizioni di compatibilità, di modalità operative sulle quali non sarà più possibile un giudizio insindacabile da parte degli organi dello Stato, che non detengono più – se mai è avvenuto - il monopolio delle conoscenze e delle tecniche. Modalità d’intervento, di restauro, d’uso e di valorizzazione implicheranno sempre più una negoziazione complessa nel corpo della società civile. La possibilità di conservazione riposa sulla capacità di attivare attorno ai beni circuiti economici vitali e sostenibili, che ne consentano l’uso e la manutenzione compatibilmente ai valori storici, ambientali, culturali e materici da preservare. Il che non è sinonimo di fare business, di mettere a reddito, di vendere e guadagnare a breve termine, come vuole una vulgata incongrua della valorizzazione. Chiunque abbia sperimentato la complessità del valorizzare un bene architettonico o ambientale sa che molti dei valori prioritariamente da riattivare sono di carattere simbolico, culturale, sociale – il ruolo di quel bene nel suo paesaggio fisico e culturale – fino a motivarne i cittadini all’uso, a contribuire economicamente alla sua manutenzione. È per questo intreccio, per la possibilità di attivare risorse finanziarie importanti, a patto d’investimenti sociali altrettanto consistenti che le fondazioni (sia quelle di origine bancaria, sia le fondazioni operative nelle loro specifiche modalità d’azione) possono rappresentare uno strumento fortemente adatto alla gestione di questa complessità. Bisogna creare risorse economiche, bisogna mettere a reddito tutto quanto può generare profitto, ma saperlo re-investire in beni e usi comuni, e trovare modalità per far apprezzare, - e anche in qualche modo pagare - i valori non monetizzabili. Bisogna essere soggetti d’impresa, pur sapendo che i beni culturali non sono la strada più breve per produrre rientri veloci dagli investimenti e valorizzare le risorse pubbliche. E’ una complessità che può consentire alle fondazioni di operare nella conservazione e nella valorizzazione del patrimonio sconfinando in modo orientato tra valori monetari e valori simbolici, tra interessi privati e interessi collettivi, per il bene comune, riferimento cardinale, nel rispondere a una missione precisa, indirizzandola a una molteplicità di azioni e di interlocutori, modulando strumenti e procedure. Non lo può fare un Ente Pubblico. E le fondazioni possono assumere un ruolo ancora più grande nel supportare e promuovere la creatività contemporanea, per creare le condizioni affinché gli artisti si possano esprimere, con un ruolo sempre meno legato all’acquisizione dell’opera finita, ma di produzione di pensiero, nel consentire che performance, allestimenti, costruzioni che coinvolgono la collettività, abbiano luogo, rischiando senza pretendere ritorni immediati per contribuire a individuare nuove modalità espressive per il futuro. Qui si pone un campo privilegiato per le fondazioni, per una politica coraggiosa che si ponga alla testa dei processi culturali, creando le condizioni per consentire a ciò che è degno di essere immaginato, di esserlo davvero.

Luca Dal Pozzolo, Direttore Osservatorio Culturale Piemonte


Dal XIII Rapporto Annuale Fondazioni, Il Giornale dell'Arte numero 338, gennaio 2014