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La Maniera supera le manie

  • Pubblicato il: 07/03/2014 - 08:57
Autore/i: 
Rubrica: 
FONDAZIONI CIVILI
Articolo a cura di: 
Laura Lombardi
Antonio Natali

Firenze. I precedenti sono la Mostra del Pontormo e del primo manierismo fiorentinoPalazzo Strozzi nel 1956, e «L’officina della Maniera. Varietà e fierezza nell’arte fiorentina del Cinquecento fra le due repubbliche (1494-1530)»«Disegni di Pontormo» agli Uffizi nel 1996-97; ora Jacopo Carucci (Pontorme, Empoli 1494 - Firenze 1557) e Giovan Battista di Jacopo (Firenze 1493/94 - Fontainebleau 1540) tornano protagonisti nella grande mostra «Pontormo e Rosso. Divergenti vie della “maniera”» (dall’8 marzo al 20 luglio a Palazzo Strozzi, catalogo Mandragora) che, grazie a prestiti di istituzioni italiane (dalla Galleria Palatina e gli Uffizi al Museo di Capodimonte) e straniere (National Gallery di Londra, National Gallery di Washington, Louvre di Parigi e Kunsthistorisches di Vienna), riunisce più di 80 opere, ossia circa 50 dipinti tra tavole, tele e affreschi staccati dei due artisti, grosso modo il 70% della loro produzione, oltre a disegni, arazzi e incisioni, affiancati da tavole dei loro maestri, Andrea del SartoFra’ Bartolomeo.

Abbiamo intervistato i curatori, Carlo Falciani, docente di storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna, e Antonio Natali, direttore della Galleria degli Uffizi.
Pontormo e Rosso, due artisti noti a molti soprattutto per il loro essere «diversi», ipocondriaco l’uno e demoniaco l’altro: in mostra che cosa emerge di tutto questo?
Quasi nulla, a dire il vero. Si tratta di una lettura basata soprattutto su episodi narrati da Vasari, come la fuga dello spedalingo di Santa Maria Nuova a cui, scrive Vasari, tutti i santi di un dipinto di Rosso parvero «diavoli» o, nel caso di Pontormo, fondata soprattutto sul suo «diario», che è relativo però agli ultimi anni di vita e non può essere assunto a chiave interpretativa di tutta la sua opera. Queste letture erano influenzate dalla categoria critica novecentesca di «Manierismo», che trovava anche nel comportamento creduto eccentrico degli artisti le ragioni delle loro scelte espressive. Lo stesso era stato per Bronzino, sempre visto come pittore d’algida eleganza e cortigiano e che invece la mostra del 2010 a Palazzo Strozzi (cfr. Vernissage n. 118, set. ’10, pp. 8-9, Ndr) ha rappresentato in tutta la sua complessità.

«Divergenti vie della maniera»: che cosa intendete con questo titolo?
I due artisti vengono presentati nelle loro differenze, dopo un’educazione condivisa nella bottega di Andrea del Sarto: l’arte del Pontormo si caratterizza per l’attenzione verso una natura rappresentata in tutta la sua varietà e difformità, che ha origine nelle sue frequentazioni giovanili di Leonardo e Piero di Cosimo e nell’apprezzamento delle stampe di Dürer. Quella di Rosso invece è segnata dall’interesse per un linguaggio più astratto e meno eclettico, attento non agli stili nuovi che venivano da fuori Italia, ma alla tradizione fiorentina quattrocentesca, soprattutto Donatello e Masaccio. Questa polarità si specchiava anche nella committenza: Pontormo, artista sempre legato ai Medici, dagli anni Venti a quelli del ducato di Cosimo I; Rosso invece apprezzato da committenti aristocratici fedeli a valori repubblicani e anche savonaroliani e, quindi, costretto a cercare fortuna altrove (Piombino, Napoli, Volterra, Arezzo, Sansepolcro, Città di Castello) e poi a Roma, fino all’espatrio in Francia nel 1530. Le loro differenti disposizioni culturali si manifestano ovviamente anche nelle scelte formali e nei contenuti delle opere.

Rosso dunque è arcaizzante: tra i due il più moderno è Pontormo?
Entrambi rispondono a visioni estetiche o politiche compresenti. Come oggi ci sono vie divergenti anche tra gli artisti contemporanei. Certamente in Pontormo si trovano già le radici di quella pittura volta alla rappresentazione veridica del naturale che poi si svolgerà in Bronzino. Si vede bene nei suoi disegni esposti in mostra, ma anche in dipinti come la pala di San Michele Visdomini, che grazie al restauro ha ritrovato una straordinaria cromia (descritta da Vasari e mai vista dall’Ottocento) e le sue vivide sembianze. Basta guardare l’aquila di san Giovanni: un brano pittorico che, estrapolato, difficilmente verrebbe attribuito a Pontormo da chi fosse guidato solo dai principi del Manierismo. Rosso è un pittore che conserva e rinnova una tradizione dal suo interno attraverso la genialità del suo linguaggio: per esempio, la Pala coi santi «diavoli» del 1518, di fronte a cui fugge lo spedalingo, è bidimensionale: il fondo è monocromo, con le figure asciutte come sculture medievali; ma proprio per questo è un dipinto nuovissimo in anni in cui Raffaello esaltava la lingua classica nelle Stanze vaticane.

Questione prestiti. Manca all’appello la «Deposizione» di Volterra. Quale altra opera di Rosso può essere importante per la sua interpretazione?
Capiamo quanto fosse difficile spostare un’opera come quella dal museo che la ospita [la Pinacoteca e Museo Civico, Ndr], ma forse uno sforzo poteva essere fatto, visto che si tratta comunque di un dipinto già decontestualizzato, non essendo più nella sua collocazione originaria. Riteniamo ci siano due modi di contestualizzare un’opera e favorirne la lettura: riportarla nel luogo per il quale era nata (in questo caso la Cappella gotica della Croce di Giorno annessa alla chiesa di San Francesco a Volterra) o inserirla nel percorso di una mostra monografica per farla dialogare con altre opere dello stesso pittore. Per l’interpretazione di Rosso vi sono comunque dipinti fondamentali come lo «Sposalizio della Vergine» della chiesa fiorentina di San Lorenzo, eseguito nel 1523 per un committente savonaroliano (cfr. box sotto, Ndr). La pala esprime ragionamenti domenicani sulla castità attraverso anomalie iconografiche come il san Giuseppe giovane; ha una composizione affollata come molte opere del Quattrocento ed è lontana sia dalla classicità sia dal linguaggio tedesco caro a Pontormo. Sulla tavola figura poi una scritta cabalista sulla mitra del sacerdote: tutti elementi che danno la misura della complessità culturale nella quale si muovevano Rosso Fiorentino e i suoi committenti.

Come già sottolineato, la mostra è stata occasione di importanti restauri con scoperte significative, specie nella «Visitazione» di Pontormo.
Sì. La «Visitazione» di Pontormo nella chiesa di Carmignano, per esempio, aveva tutte le architetture ridipinte in epoca moderna; rimuovendole sono riemerse una scena di città con una figura affacciata alla finestra, la lastricatura della via e un asino che passa nella strada. Lo «Sposalizio» di Rosso e la «Pala Pucci» di San Michele Visdomini di Pontormo, ma anche i lunettoni del Chiostrino dei voti alla Santissima Annunziata, hanno ritrovato una cromia che nessuno di noi aveva mai visto.

Il percorso è tematico come nella retrospettiva di Bronzino, di cui eravate stati curatori?
No, perché era quasi impossibile fare un percorso come quello di Bronzino, che aveva registri espressivi su molteplici piani. Si è scelto di esporre le opere su binari cronologici paralleli, confrontando le diversità fra i due artisti in differenti momenti della loro vita.

Ci sono delle novità attributive?
Una tavola giovanile di Pontormo, che nell’Ottocento gli era attribuita, ma poi non era stata più vista, e un ritratto giovanile di Rosso Fiorentino del tutto inedito.
In mostra ci sarà il celebre «The greeting» di Bill Viola. Perché non invece il film «La ricotta» di Pasolini, che trent’anni prima, nel 1963, meditava su questi capolavori?
La scelta di esporre una delle più belle opere di Bill Viola al piano nobile, dopo l’uscita dalla mostra, è della Fondazione Palazzo Strozzi. Dal nostro canto, le scene di Pasolini sono nel catalogo e illustrano il saggio di Elisabeth Cropper sulla fortuna critica. Ci sarà sicuramente un dialogo a distanza fra quelle due invenzioni poetiche, germinate dalla lettura dei nostri due artefici.

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