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La formazione al management culturale. Scenari, pratiche, nuove sfide

  • Pubblicato il: 14/02/2017 - 01:18
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CONSIGLI DI LETTURA
Articolo a cura di: 
Francesca Sereno

Da poco pubblicato da Franco Angeli, nella collana «Pubblico, professioni e luoghi della cultura»1, La formazione al management culturale. Scenari, pratiche, nuove sfide [VV. AA., a cura di Antonio Taormina - Franco Angeli Edizioni, Milano, 2017] rappresenta una valida occasione per orientarsi nel variegato mondo di un'area fondamentale per lo sviluppo e l’innovazione dei settori della cultura e della creatività. Il libro nato con il contributo di autorevoli esperti del settore culturale2, verrà presentato a fine marzo a Roma e a Bologna, a maggio a Milano nell'ambito delle iniziative promosse dall'Associazione Ateatro e in diverse in altre città italiane a partire da aprile
 

La figura di «manager culturale» nel tempo ha acquisito sempre maggiore importanza, invocata in nome di un'esigenza di gestione efficace come risposta alla diminuzione di risorse disponibili.
Ma cosa si intende nello specifico con questa definizione? E' opinione diffusa che si tratti di una figura professionale fortemente qualificata in più aree disciplinari relativa a diversi ambiti di gestione, dall'organizzazione al marketing, dalle relazioni istituzionali al fund raising, etc. Tuttavia queste competenze, che attengono alla definizione tradizionale di manager, nell'ambito culturale da sole non garantiscono una gestione efficiente: occorre una logica trasversale, di integrazione tra saperi umanistici e saperi tecnico-gestionali.
Certamente questo tipo di profilo è poco presente nelle settore pubblico (locale e nazionale), dove, come osserva Franco Bianchini, i profili dei dirigenti preposti alle politiche culturali non provengono da percorsi formativi mirati al management culturale.
Ne è una conferma il fatto che, come evidenziato da Antonio Taormina nell'introduzione, i 20 direttori musei, nominati dal Mibact nel 2015 in applicazione del «Decreto Musei», non abbiano esattamente il profilo di manager culturale: 14 sono storici dell’arte, 4 archeologi, 1 museologo/manager culturale, 1 manager culturale tout court.
Venendo alle istituzioni culturali private, in Italia il numero di enti di grandi dimensioni in grado di assorbire profili manageriali è assai ridotto, a fronte di una molteplicità di organizzazioni culturali di medie e piccole dimensioni «guidate» da figure che ricoprono sia mansioni gestionali che artistiche.
Ciò nonostante a partire dagli anni 90, in Italia si è assistito ad un proliferare di percorsi formativi mirati a coniugare, secondo Michele Trimarchi in maniera a volte un po' rigida, concetti come «management» e «marketing» a quelli di «arte e cultura», «eventi», «patrimonio culturale».
Un quadro storico internazionale della pratica del management culturale viene illustrato da Annick Schramme, direttrice accademica del Master in Cultural Management dell'Università di Anversa: i primi corsi vengono avviati negli anni '60 negli Stati Uniti, nei decenni successivi, a seguito della riduzione dei finanziamenti per la cultura, si assiste ad una diffusione in Europa.
Nel 1992 viene fondata la rete europea ENCATC dedicata allo sviluppo del management culturale e orientata a rafforzare la competitività dei settori culturali e creativi. La rete è composta da istituti di formazione superiore (68%), centri di formazione (20%), organizzazioni artistiche e culturali (5%), enti pubblici (3%), artisti (2%) e altri (2%).
In Italia, come emerge dalla mappatura di Giada Calvani, vi sono 51 master in management culturale, di cui 44 di primo livello o equipollenti, 7 secondo livello. I master universitari sono 33, 5 quelli realizzati da istituzioni AFAM e 6 da altre realtà. L'Ateneo con la maggiore offerta è l'Università Cattolica di Milano con 6 master, seguita dalla Luiss di Roma e dall'Università Ca' Foscari con 3 master ciascuno.
La formazione specifica nei singoli ambiti, illustrata da Bruno Zambardino (relativamente al settore cinematografico), Mimma Gallina (teatro) e Alessandro Colombo (industrie creative), è assai composita. Spazia da percorsi che ricalcano la gestione di impresa, a quelli orientati alla promozione e alla distribuzione del «prodotto», ad altri ancora che si concentrano sulle competenze tecnologiche.
Il nodo centrale, posto da diversi autori, è se l'offerta formativa sia effettivamente coerente con le esigenze del settore, che non solo vive ormai da tempo una notevole contrazione delle risorse economiche e finanziarie, ma che si confronta con uno scenario in continua evoluzione. Fenomeni come globalizzazione, migrazione, digitalizzazione inducono a dover ripensare i profili dei manager culturali e necessariamente all'opportunità di nuove competenze.
Lucio Argano, nel suo intervento, ritiene che l'offerta formativa tenda ad una specializzazione puntuale di singole aree disciplinari, senza riuscire a creare la necessaria «cerniera tra conoscenze di tipo artistico, storico, scientifico e conoscenze gestionali e progettuali». E aggiunge che spesso non tiene conto di questioni nodali, come l'affermarsi della libera professione, il ricambio generazionale nelle organizzazioni, la mobilità dei manager culturali sul fronte internazionale, i nuovi linguaggi della produzione artistica.
Per questo occorre lanciare delle sfide. La sfida delle strategie, ossia saper superare la visione settoriale, guardando l'organizzazione sia al suo interno che nel contesto esterno in cui opera. La sfida delle relazioni, che comporta l'aumento del numero e della densità delle interconnessioni, il numero e la qualità delle relazioni, valorizzando la diversità e i punti di convergenza e puntando sui meccanismi di friendraising. La sfida delle progettualità, che significa orientarsi ai progetti e non alla struttura, favorire pratiche aggregative, audience devolopment. La sfida delle risorse tradotta nel saper diversificare, nel saper cercare in altri settori pubblici (turismo, sociale, urbanistico), nella capacità di gestione della dimensione economico-finanziaria. Infine la sfida dell’organizzazione che implica maggiore flessibilità, strutture informali, semplici e snelle a partire dalle procedure.
Interessanti anche gli spunti di Fabio Donato che pongono l'accento sia sulla domanda che sull'offerta di formazione. Riguardo alla prima, l'autore suggerisce che l’apprendimento debba svilupparsi lungo l’intero arco della vita, non solo durante la formazione giovanile. I corsi sono considerati prevalentemente «biglietti da visita» per l’ingresso nel mondo del lavoro, mentre lo scenario in rapida evoluzione implica un aggiornamento continuo delle competenze. Inoltre prevalgono «atteggiamenti mono-disciplinari», mentre invece è importante la contaminazione dei saperi, la capacità di governare sistemi complessi. Infine occorre tenere presente che gli sbocchi occupazionali sono sempre meno nelle istituzioni culturali pubbliche, mentre un sistema variegato di piccole e medie imprese, associazioni, start-up costituisce una maggiore opportunità di occupazione. Questo implica un cambiamento di atteggiamento mentale, orientato più all'imprenditorialità, alla gestione del rischio di impresa, all'innovazione.
Riguardo all'offerta, Donato ritiene che i percorsi formativi debbano sempre di più porsi in un'ottica di accompagnamento, dove vengono meno tesi e concetti precostituiti. Dunque devono essere in grado di seguire i cambiamenti di scenario, interdisciplinari, di porre l'attenzione sull'internazionalizzazione, di saper proporre un raccordo tra teoria e prassi.
Un altro tema che l'offerta formativa non può trascurare è quello dell'Audience Develpoment, tanto centrale quanto poco chiaro, ma di cui le organizzazioni devono sempre più tenere conto. Il contributo di Alessandro Bollo e Alessandra Gariboldi aiuta a chiarire il ruolo dell'audience developer, un nuovo profilo che richiede attitudini e competenze sia strategiche che pragmatiche. Questa figura, secondo gli autori, non è né un mediatore culturale né un esperto di marketing ma piuttosto un project manager capace di dialogare con le diverse voci e di mettere in connessione le risorse delle organizzazioni culturali aiutandole a focalizzarsi sui loro impatti e sulle loro relazioni.

Non c'è dubbio dunque che il manager culturale debba essere una figura ibrida, capace di gestire processi complessi e di cogliere rapidamente le trasformazioni in atto.
Per chiudere con Pierluigi Richini, l'efficacia della formazione del manager culturale dipende sia dal miglioramento della qualità dell'offerta che da una maggiore consapevolezza della domanda sulla rispondenza della formazione ai propri bisogni professionali e organizzativi.

La formazione al management culturale. Scenari, pratiche, nuove sfide
A cura di Antonio Taormina.
Con i contributi di: Lucio Argano, Fabrizio Maria Arosio, Franco Bianchini, Alessandro Bollo, Sara Bonesso, Giada Calvano, Giannalia Cogliandro Beyens, Alessandro Colombo, Fabio Donato, Mimma Gallina, Alessandra Gariboldi, Fabrizio Gerli, Fabrizio Montanari, Pierluigi Richini, Monica Sardelli, Annachiara Scapolan, Annick Schramme, Antonia Silvaggi, Michele Trimarchi, Bruno Zambardino.
Franco Angeli Edizioni, Milano, 2017
Prezzo: 21,99€

© Riproduzione riservata

 
1 curata da Francesco De Biase, Aldo Garbarini, Loredana Perissinotto, Orlando Saggion.

2Lucio Argano, Fabrizio Maria Arosio, Franco Bianchini, Alessandro Bollo, Sara Bonesso, Giada Calvano, GiannaLia Cogliandro Beyes, Alessandro Colombo, Fabio Donato, Mimma Gallina, Alessandra Gariboldi, Fabrizio Gerli, Fabrizio Montanari, Pierluigi Richini, Monica Sardelli, Annachiara Scapolan, Annick Schramme, Antonia Silvaggi, Michele Trimarchi, Bruno Zambardino.