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La cultura entra tra le priorità del Comitato Economico e Sociale Europeo

  • Pubblicato il: 15/04/2018 - 09:06
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Vittoria Azzarita

Il 18 aprile 2018, Luca Jahier è stato eletto alla guida del Comitato Economico e Sociale Europeo (CESE), l'organo consultivo dell'Unione Europea di rappresentanza delle organizzazioni dei lavoratori, dei datori di lavoro e di altri gruppi d'interesse. Con una lunga esperienza nel campo della cooperazione internazionale, Luca Jahier è stato anche uno dei principali promotori e sostenitori dell'iniziativa che ha portato al riconoscimento del 2018 quale Anno Europeo del Patrimonio Culturale. Nonostante l'importanza della cultura per la vita sociale, politica ed economica dell'Europa, all'interno del CESE manca una componente strutturale dedicata ai rappresentanti del settore culturale. Per colmare questo gap, il Presidente Jahier ha deciso di inserire la Cultura tra gli obiettivi strategici del Comitato per i prossimi anni, insieme allo sviluppo sostenibile, alla pace e ai giovani. Perché - come ci spiega nel corso di questa intervista - “la Cultura, oggi, può davvero fare bene all'Europa da tutti i punti di vista, e questo far bene all'Europa può diventare uno degli strumenti più rilevanti del dialogo con le altre parti del mondo”.


Il Comitato Economico e Sociale Europeo (CESE) è un organo consultivo dell'Unione Europea che comprende rappresentanti delle organizzazioni dei lavoratori, dei datori di lavoro e della società civile. In che modo il CESE riesce a conciliare le molteplici istanze e gli interessi divergenti dei suoi 344 membri, che rappresentano categorie a volte in contrapposizione tra loro come i produttori e i consumatori?
In linea con l'Europa, che nasce da una storia di riconciliazione e ricerca di compromessi, il Comitato Economico e Sociale Europeo – che è la più antica assemblea di consultazione europea, istituita fin dal Trattato di Roma del 1957 – è un luogo di convergenza che rappresenta tutte le componenti della società, dalle imprese di piccole, medie e grandi dimensioni ai sindacati, alle organizzazioni sociali, economiche, professionali e della società civile.
Il CESE presenta un'articolazione in tre gruppi: il gruppo dei datori di lavoro, il gruppo dei lavoratori e dei sindacati e il gruppo degli interessi diversi che rappresenta gli agricoltori, le professioni liberali, le associazioni e fondazioni, le organizzazioni famigliari e umanitarie, le cooperative e le imprese sociali, i consumatori, le organizzazioni ambientaliste e dei diritti umani. La conciliazione delle diverse istanze avviene attraverso l'operato delle diverse commissioni di lavoro, che operano sulla falsariga delle commissioni parlamentari impegnate nei vari ambiti della politica europea, preparando dei pareri per dare un contributo alle diverse politiche dell'Unione Europea. I pareri elaborati dal CESE vengono costruiti attraverso incontri e dibattiti, cercando una convergenza che generalmente alla fine si riesce a conseguire. Proprio questa è la grande forza del CESE, che credo sia un unicum in Europa per la sua capacità di dialogo e di confronto – anche aspro, se necessario - tra posizioni diverse. In virtù di ciò, il CESE non solo dà un contributo originale e sostanziale su questioni di primaria importanza per tutti i cittadini europei, ma in molti casi anticipa le politiche e gli orientamenti che poi saranno adottati a livello comunitario, come è avvenuto ad esempio in materia di democrazia partecipativa, economia circolare, sviluppo sostenibile ed economia sociale, tutti ambiti in cui il Comitato ha svolto negli ultimi anni un ruolo di grandissima anticipazione.
 
 
L'unica componente strutturale che manca all'interno del CESE è quella dedicata alla cultura. Ritiene che i tempi siano maturi per istituire nel Comitato un'area che si occupi in maniera specifica di cultura?
Io credo di sì. In realtà questa mancanza è una contraddizione, perché ai sensi dell'Articolo 300 del Trattato il CESE dovrebbe essere espressione anche della rappresentanza delle organizzazioni che sono attive nel settore della cultura, siano esse lavoratori, imprese o organizzazioni varie della società civile organizzata. Ad oggi, però, nel CESE ci sono pochissimi rappresentanti che provengono dal mondo della cultura e questa debolezza numerica è un segnale di un fenomeno più ampio, legato al processo che porta alla composizione del Comitato: i nostri membri, infatti, sono eletti dal Consiglio dell'Unione europea in base a candidature presentate dai governi degli Stati Membri. C'è, quindi, la necessità di riscoprire ad ogni livello della comunità europea l'importanza oggettiva della cultura per la nostra vita sociale, politica ed economica, in particolare nella contingenza storica che stiamo vivendo: questo vale per gli Stati Membri e vale per l'Europa. Gli strumenti ci sono, ma andrebbero sfruttati ed utilizzati meglio. Il CESE in questi anni ha aperto delle finestre importanti sul tema della cultura, e credo l'Anno Europeo del Patrimonio Culturale possa diventare un'occasione straordinaria per fare un salto di qualità significativo nell'assumere la cultura nella sua valenza strategica e nella sua potenzialità unica nel momento storico in cui ci troviamo.
 
 
A questo proposito, lei è stato un tenace sostenitore e uno dei principali promotori dell'Anno Europeo del Patrimonio Culturale. In che modo questo tipo di iniziative possono contribuire alla costruzione di una identità comune europea aperta al dialogo e alla diversità?
Le due caratteristiche fondamentali della cultura, in ogni tempo e in ogni luogo, sono sempre state il fatto che la cultura ha a che fare con i valori e con l'identità. Questo è un discorso molto complesso, perché la cultura può anche essere manipolata, come è accaduto in passato tramite la propaganda e come accade oggi quando viene strumentalizzata per definire valori di chiusura, di distinzione brutale della diversità e di negazione delle alterità. Ma nella sua più grande tradizione, la cultura è sempre stata contaminazione, ricerca di identità aperte, propensione al dialogo e alla creazione di ponti. La cultura, quindi, rappresenta un humus straordinario sia per la condivisione dei valori sia per la costruzione di società in dialogo, aperte, capaci di comprendere le ragioni dell'altro e di integrarle in sintesi nuove. Questo è un dato che diventa imprescindibile nel presente che stiamo vivendo, in cui assistiamo ogni giorno al crescere di tendenze illiberali e nazionalistiche, di rigurgiti antisemiti e xenofobi e di appelli identitari escludenti.
La cultura gioca anche altri ruoli molto concreti. La cultura è, come alcuni Paesi hanno riscoperto, una straordinaria leva di crescita, di sviluppo economico, di buona occupazione e di riconversione dei territori. Non mi riferisco solo alla straordinaria esperienza delle Capitali Europee della Cultura, ma anche a tutte quelle regioni e città che grazie alla cultura - e a tutto ciò che ruota attorno al settore culturale - si sono reinventate, ritrovando una missione, una funzione e anche uno spazio di crescita economica. Ad esempio la città da cui provengo, Torino, era la città dell'automobile e fino alla metà degli anni '80 la gran parte del suo reddito era Fiat centrica. Oggi, invece, Torino è una città che deve molto del proprio reddito al turismo e alla cultura, e alla capacità di questi settori di produrre effetti positivi anche in altri ambiti. E come Torino ci sono molte altre città europee - penso a Manchester, Bilbao e tante altre - che hanno trovato nella cultura un nodo di riconversione.
Nello scenario attuale, in cui crescono tensioni e conflitti, la cultura può diventare uno straordinario elemento di “soft power”, di diplomazia culturale, per costruire ponti di pace e riconciliazione. Non è un caso che negli ultimi anni tutti gli estremismi violenti, sviluppatisi in una parte del Medio Oriente, abbiano fatto della distruzione dei siti culturali la loro missione originaria, come se volessero distruggere l'origine della loro identità. Quindi offrirsi in queste zone per proteggere anche i siti culturali, e aiutarne la ricostruzione, è un ulteriore modo per contrastare l'espansione degli estremismi o di altre operazioni di annullamento dell'identità volte ad imporre identità ideologicamente marcate e legate al potere. La cultura, oggi, può davvero fare bene all'Europa da tutti i punti di vista, e questo far bene all'Europa può diventare uno degli strumenti più rilevanti del dialogo con le altre parti del mondo.
 
 
Sebbene la cultura sia un asset strategico per favorire la coesione sociale e il benessere collettivo, continua ad essere un campo d'intervento accessorio e marginale dell'agenda politica europea. Secondo lei perché, ancora oggi, il settore culturale fatica a veder riconosciuto il proprio valore?
A questo proposito, direi che si potrebbe partire da tre strumenti che l'Unione Europea ha per accelerare l'inversione di questo trend. Il primo è l'Articolo 167 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea, che stabilisce alcune linee d'intervento molto chiare: è vero che la funzione dell'Unione Europea nel campo della cultura è fondamentalmente sussidiaria, ma l'articolo dice che l'azione dell'Unione è intesa a incoraggiare la cooperazione tra gli Stati Membri e se necessario ad appoggiare e integrare l'azione di questi ultimi in alcuni settori. Questo è un indirizzo di mandato molto preciso e puntuale sul quale è possibile lavorare perché, come sappiamo, spesso i trattati contengono molto di più di quello che poi si riesce oggettivamente a fare nella pratica.
In secondo luogo, negli ultimi anni l'Europa si è dotata di alcuni validi strumenti di investimento e di politiche attive nel settore culturale: penso, ad esempio, al programma Europa Creativa – che certo potrebbe crescere ancora di più, ma che sicuramente non è un programma minore – oppure al programma Erasmus, che secondo me ha fatto moltissimo per creare uno spazio europeo per la cultura tra i giovani.
Il terzo aspetto riguarda la scelta di istituire l'Anno Europeo del Patrimonio Culturale. A questo proposito, vorrei far notare che l'Europa aveva deciso di interrompere gli Anni Europei, ritenendoli uno strumento superato. In questo caso, invece, è stata fatta una scelta in controtendenza, accogliendo la proposta dell'Anno Europeo del Patrimonio Culturale come strumento per far crescere una coscienza collettiva rispetto alla capacità del patrimonio culturale di essere una leva fondamentale del benessere della società.
Anche se ci sono dei segnali che ci dicono che un'inversione di tendenza è possibile, dal mio punto di vista ci sono tre cose che restano ancora da fare. Prima di tutto, l'insieme degli attori che direttamente producono, costruiscono e danno forma alla cultura nei campi dell'arte e delle industrie culturali e creative devono diventare sempre più protagonisti pro-attivi, capaci non soltanto di far sentire la loro richiesta di un maggior riconoscimento ma anche di far valere il contributo della cultura nella costruzione di quello che io definirei un nuovo Rinascimento europeo. Questo è un aspetto fondamentale: nello scenario europeo di oggi nulla accade per caso, accade quando i protagonisti non solo rivendicano per sé uno spazio più che doveroso ma acquistano anche una coscienza del ruolo da giocare, in modo forte e propositivo.
La seconda condizione è che le buone iniziative che sono state avviate in tante parti d'Europa debbano continuare: alcuni Stati Membri pur in periodi di crisi, in cui si tagliavano i bilanci, hanno comunque raddoppiato gli investimenti a favore della cultura. Da questo punto di vista, credo che come italiani dobbiamo essere orgogliosi e soddisfatti di quanto il Governo italiano ha fatto negli ultimi anni, perché nonostante le politiche di austerità e i tagli ai bilanci pubblici, il nostro Paese in controtendenza rispetto a molti altri, e anche rispetto a tanti altri settori, ha aumentato in modo consistente la spesa per la cultura. Questo ha prodotto risultati evidenti in termini di flussi turistici, di occupazione, di rigenerazione delle città, di impatto e di riconoscibilità. Quindi è necessario che gli Stati Membri e molte regioni e città, che hanno fatto della cultura una delle leve principali della loro rinascita, si coalizzino e trovino in luoghi come il CESE e il Parlamento Europeo degli spazi di sostegno, di confronto e di amplificazione, contaminando gli altri nel far capire l'importanza del settore culturale.
Il terzo aspetto fa parte di una strategia politica, e riguarda la necessità di conquistare uno spazio adeguato sia nelle prossime priorità della Commissione Europa sia nel quadro finanziario pluri-annuale, che si comincerà a discutere tra qualche settimana. Vi è una domanda forte da parte del mondo della cultura che gli investimenti a favore della cultura siano almeno pari all'1% del bilancio europeo dei prossimi anni. Il fatto stesso che oggi si formalizzi questo obiettivo è già una grande novità rispetto a qualche anno fa. La battaglia è ancora aperta e vedremo come andrà a finire.
 
 
Su quali aspetti dovrebbe concentrarsi un'agenda politica europea dedicata alla cultura? Ci sono dei temi che lei ritiene prioritari rispetto ad altri?
Io credo che l'agenda politica europea della cultura debba far leva su alcune questione fondamentali. Primo, diventare un importante veicolo di maggiore comprensione e riconciliazione delle memorie europee. Abbiamo creato un grande mercato unico, un grande spazio di prosperità, di progresso e integrazione sociale, ma ritengo che molto resti da fare per comprendere più a fondo che l'Europa non è soltanto un meccanismo, ma è anche un insieme di valori che hanno radici profonde al di là di quanto è regolato dai trattati. Penso alle fratture che si stanno creando tra l'est e l'ovest: abbiamo riconciliato le due parti dell'Europa dopo la caduta del muro di Berlino e della cortina di ferro, ma credo che non abbiamo lavorato abbastanza sul riconciliare le memorie e le incomprensioni che hanno radici molte antiche. In secondo luogo, ritengo che la cultura possa essere una leva importante per aiutarci a ri-declinare il tema della pace e della risoluzione dei conflitti, che è un tema che sta attraversando tutte le nostre società. Infine, credo che la cultura possa darci una mano importante a ri-proiettarci nel futuro. Oggi l'Europa ha bisogno di riconquistare la propria fiducia rispetto al futuro, ha bisogno di pensarsi in termini di sviluppo sostenibile e la cultura può essere davvero il quarto pilastro dello sviluppo sostenibile al fianco dell'economia, della dimensione sociale e della dimensione ambientale. La cultura potrebbe rappresentare un elemento dinamico nella costruzione di una narrazione di senso di questa nuova prospettiva di sviluppo, che l'Europa si deve dare per garantire un futuro sostenibile alle generazioni presenti e future.
 
 
Presidente Jahier, lei è un profondo conoscitore del settore filantropico. Quale ruolo dovrebbero svolgere le fondazioni e gli enti filantropici nell'interesse della cultura e dei benefici che è in grado di produrre?
Intanto bisogna riconoscere che gli enti filantropici giocano un ruolo rilevante nel finanziare la cultura, soprattutto a livello locale, rappresentando una sponda straordinaria per molte amministrazioni locali che spesso sono i veri protagonisti degli investimenti culturali, visto che oltre il 70% degli investimenti in cultura sono di fatto gestiti dalle autorità locali, siano esse comuni, province o regioni. Gli enti filantropici, nel nostro Paese ma non solo, hanno spesso rappresentato quella leva che poteva permettersi sia di investire sia di pianificare a medio e lungo termine, che ha sostenuto degli investimenti straordinariamente importanti. Bisogna, quindi, consolidare questo trend e continuare a farlo sempre meglio, costruendo una maggiore sinergia e una convergenza strategica su alcuni grandi obiettivi, come quelli di cui parlavamo prima. A ciò si aggiunge la possibilità di finanziare programmi innovativi per favorire la capacità di scambio e la conoscenza, attraverso l'uso di strumenti innovativi -  quali la venture philanthropy e l'impact investing - e l'adozione di nuovi modelli e modalità di erogazione dei contributi. Io vedo degli amplissimi spazi d'azione in una logica di cooperazione attiva e interattiva tra il mondo del privato sociale, e delle sue autonomie e capacità, e il mondo delle autorità pubbliche. Credo che ci siano delle buone opportunità, delle buone leve e anche delle buone possibilità di ritorno, come dimostrano molte operazioni fatte negli ultimi anni da prestigiosi enti filantropici.
 
 
Dal suo punto di vista le reti europee di supporto alla filantropia - come lo European Foundation Centre, Ariadne o Dafne - favoriscono una più intensa cooperazione e una maggiore collaborazione sia tra le organizzazioni filantropiche che tra il settore filantropico e altri ambiti di intervento?
Assolutamente sì. È una benedizione che ci siano e speriamo che queste reti si rafforzino e diventino più locali, e che interagiscano sempre più tra loro e nello spazio pubblico europeo. Vediamo con grande favore l'ampliarsi dell'azione di queste realtà di coordinamento e non ci si può che augurare che questo processo possa proseguire e diventare maggiormente significativo negli anni a venire.
 
 
La diffusione dei nazionalismi e la riduzione dello spazio d'azione per la società civile sono due delle sfide più importanti che la filantropia istituzionale è chiamata ad affrontare. Cosa sta facendo l'Unione Europea per cercare di contrastare questi fenomeni?
Su questo fronte le azioni sono di tre tipi. Il primo è che questi fenomeni hanno un'origine nelle grandi  tensioni sociali e nelle trasformazioni che il nostro continente sta vivendo in questo tempo. In relazione a questo primo aspetto, l'azione dell'Unione Europea è orientata non solo a contenere gli effetti della crisi, ma anche a creare i presupposti per una ripartenza dell'economia, dell'occupazione e della capacità di investire nelle nuove direzioni del futuro. Penso ai grandi piani che riguardano l'energia e l'economia circolare, e alla recente adozione del Pilastro europeo dei diritti sociali, quali strumenti di governance politica, sociale ed economica che vanno nella direzione di ristabilire quei fondamenti che permettono di ridare fiducia e speranza, di riattivare le linee di progresso consolidato e di sostenere la ripresa dell'Unione Europea dopo una crisi economica che ha avuti degli impatti sociali devastanti. Molte delle origini dei fenomeni negativi che abbiamo citato nel corso di questa conversazione, e che impattano anche sulle paure e sulle chiusure, hanno le loro radici nella crisi economica, sociale e di valori che l'Europa ha vissuto e che non ha ancora completamente superato.
Il secondo è che oggi c'è un aspetto dirompente dentro il meccanismo della comunicazione, che sta erodendo la fiducia sociale e la capacità di comprensione, che è il grande fenomeno della manipolazione dell'informazione. Certo la manipolazione c'è sempre stata, ma oggi grazie alle tecnologie digitali, alle fake news, e all'uso improprio dei dati che i cittadini hanno consegnato alle grandi piattaforme di comunicazione rischia di andare fuori controllo. L'Europa rispetto a questi fenomeni è intervenuta in modo molto diretto, e di fronte all'esplosione dello scandalo di Facebook e Cambridge Analytica, sia Zuckerberg sia le autorità americane - che hanno sempre criticato la legislazione europea, ritenendola troppo restrittiva degli spazi della concorrenza sulla tutela della privacy – hanno iniziato a guardare alla legislazione europea sulla privacy come a un meccanismo di garanzia di fronte al rischio di manipolazione del pensiero degli individui, quale quello che si è verificato nello scandalo che citavo.
Il terzo è che in Europa si sta progressivamente aprendo uno spazio di attenzione, e anche di lavoro, sulla riduzione dello spazio d'azione per la società civile. Due mesi fa l'agenzia per i diritti fondamentali di Vienna ha formulato un primo rapporto sull'insieme dei Paesi europei su quanto sta accadendo in questa direzione. Lo stesso CESE ha presentato un mese fa una ricerca sulle principali linee di mutamento della società civile da qui al 2030, per capire quali sono i trend e come intervenire per consolidare le pratiche positive e correggere i rischi, tra cui rientrano anche gli impatti delle tecnologie sulle forme di partecipazione, che facilitano alcune azioni ma allo stesso tempo producono anche alcuni cambiamenti strutturali. C'è un'attenzione che sta crescendo e maturando di fronte a un fenomeno che è sicuramente nuovo e che va gestito in maniera tempestiva.
 
 
Per concludere, quali saranno le politiche e gli interventi che il CESE svilupperà nel prossimo futuro?
Nei prossimi anni il CESE continuerà a svolgere il suo lavoro, ossia quello di essere la piattaforma principale di questo dialogo strutturato, organizzato, costante e permanente tra la società civile europea e le istituzioni, svolgendo il suo ruolo di ponte e di consigliere delle tre istituzioni principali  nel processo di formazione delle politiche, come prevedono i trattati europei. Credo che oggi i quattro grandi assi su cui concentrarsi siano: l'Agenda 2030 sullo sviluppo sostenibile, che deve diventare il vero asse prioritario delle politiche europee dei prossimi anni; un investimento nuovo sulla pace, non soltanto come uno dei migliori frutti dell'Europa ma come una delle questioni che oggi è messa più in discussione e che va ri-lavorata, ri-compresa e ri-tutela; la promozione della cultura, anche alla luce di tutto ciò di cui abbiamo parlato prima; infine penso che sia necessario rimettere al centro il protagonismo dei giovani, dando loro lo spazio che gli è dovuto perché i giovani possono essere uno dei principali aspetti di cambiamento della società.
Intorno a queste temi vi sono dei dossier politici molto concreti sui quali sarà necessario impegnarsi per dare un contributo rilevante a nome delle componenti della società civile organizzata. Tra questi vi sono: il quadro finanziario pluri-annuale, che risulta essere strettamente connesso alla questione della pianificazione delle risorse e alla riduzione della disponibilità economica generale, soprattutto in un tempo di divorzio europeo dovuto al caso della Brexit; la trasformazione energetica dell'Europa; il consolidamento della nuova agenda sociale; le elezioni europee e la costruzione della prossima Commissione europea e delle sue priorità. Anche l'ampliamento degli spazi di dialogo e di partecipazione continuerà ad essere una nostra priorità, in linea con la nostra missione di essere un elemento di raccordo tra le componenti della società civile europea nelle loro diverse declinazioni nazionali e le istituzioni dell'Unione Europea.
 
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