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Il museo può essere il «terzo luogo»?

  • Pubblicato il: 07/10/2011 - 12:38
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Rubrica: 
FONDAZIONI D'ORIGINE BANCARIA
Articolo a cura di: 
Chiara Tinonin
Pablo Helguera con Julia Draganovic e

Bologna. A Bologna c’è una sede espositiva - Villa delle Rose - che, insieme al Mambo, Museo Morandi e Museo della Memoria di Ustica, fa parte dell’Istituzione Galleria d’Arte Moderna. Un’istituzione storica - presieduta da Lorenzo Sassoli de Bianchi e diretta da Gianfranco Maraniello - sostenuta sia dagli enti pubblici, sia dalle fondazioni di origine bancaria della città: la Fondazione Carisbo (con un impegno annuo di 380.000 Euro) e la Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna (300.000 euro). Lo scorso marzo, superato l’allarme di chiusura per l’erosione dei contributi pubblici e soprattutto per il passaggio della legge sulla stabilizzazione finanziaria 122/2010, Gianfranco Maraniello aveva presentato il nuovo piano di gestione: «oggi non possiamo permetterci la discontinuità e dobbiamo puntare tutto sui progetti strategici». Che, tradotto, significava chiudere Villa delle Rose «lontana dai circuiti culturali del centro della città», per accentrare tutte le risorse sul Mambo e sul Morandi.
Inaspettata, quindi, la decisione di offrire la Villa al vincitore della prima edizione del «Premio di Arte Partecipativa», l’artista di origini messicane, ma trapiantato a New York, Pablo Helguera (classe 1971). Il premio, ideato dall’Assemblea Legislativa della Regione Emilia Romagna e curato da La Rete Art Project in collaborazione con Goodwill, è un progetto biennale che «non si rivolge al mercato dell’arte, ma è mirato a produrre processi di partecipazione, cioè a far entrare il cittadino nei processi decisionali» spiega la curatrice Julia Draganovic.
Ispirato dal concetto sociologico del «terzo luogo», Pablo Helguera, che è anche il Direttore dei Programmi per gli adulti e le Università del MoMA di New York, ha pensato per Bologna il progetto «Aelia Media»: un’officina di produzione creativa per un gruppo di 20 giovani selezionati sul territorio, dai background differenti ma tutti con un obiettivo preciso, quello di migliorare l’offerta culturale della città a partire dalla comunicazione, virtuale e reale, di progetti innovativi e inclusivi. Anche per il resto dei cittadini, dal mese di giugno, «Aelia Media» ha portato a Villa delle Rose artisti, curatori e creativi da tutto il mondo, con l’obiettivo di costruire con la cittadinanza un confronto sui temi della collaborazione, della produzione culturale, dell’arte contemporanea – tra gli altri, sono intervenuti Cesare Pietroiusti, Via Lewandowsky, Luigi Presicce, Alfredo Cramerotti, Luca Lo Pinto, Roberto Paci Dalò, il collettivo Irwin, Antoni Muntadas.
Pablo, cosa significa «terzo luogo»?
«Mi sono interessato all’idea di terzo luogo un po’ di tempo fa, quando lessi Ray Oldenburg, il sociologo che negli anni ‘80 ha introdotto per primo questo concetto. A partire dai sobborghi delle città americane, Oldenburg ha iniziato a verificare il grande problema di allineamento sociale: case tutte uguali, giardini tutti uguali… Poi c’erano alcuni aspetti della città che stavano svanendo, come le piazze - che sono fondamentali - caffè, pub, punti di ritrovo… Luoghi in cui vai e ti senti un membro legittimo, luoghi di aggregazione naturale, dove incontri persone che tendenzialmente conosci già. Il terzo luogo è una situazione fluida frapposta tra casa e lavoro: non è un ambiente strutturato come il lavoro, né completamente domestico come la casa. E’ un luogo dove si può essere liberi e veramente felici. Oldenburg insiste sulla nostra necessità ad avere terzi luoghi; ne abbiamo bisogno, se non li abbiamo, dobbiamo crearli».
Il museo – mi riferisco in particolare ai musei del presente –  può essere un terzo luogo?
«Questo è un dibattito molto intenso per i musei. Penso che, in molti momenti, molti spazi culturali abbiano giocato il ruolo del terzo luogo: spazi alternativi, espositivi. Ma i terzi luoghi non sono necessariamente dei luoghi fisici, piuttosto combinazioni spazio-temporali dove gruppi di amici si incontrano, dove senti che tutte le persone sono connesse e che lì puoi apportare il tuo piccolo mondo, esprimerti senza riserve. Il problema con i musei, specialmente i grandi musei pubblici, è che hanno una missione pubblica: devono servire tutti, i bambini, le famiglie, gli adulti, gli anziani... Quando vai al museo non senti il messaggio del terzo luogo. I musei sono un’attività part-time per piccole comunità sociali che possono proiettare sul museo il loro diritto di proprietà; in certi casi il museo è soprattutto una forma di orgoglio. Per «Aelia Media», l’idea del terzo luogo può esistere a un livello stratificato: c’è un gruppo di 20 giovani che avrà un’esperienza di collaborazione correlata all’investimento individuale nel progetto. I ragazzi, che stanno lavorando insieme da mesi, ora sono amici, sono una comunità; insieme vogliono fare qualcosa di importante e di significativo per la città. Sono stanchi di non avere la possibilità di fare nulla per Bologna, o sentire che non possono farlo. Il progetto consente loro l’opportunità di farlo, di fare qualcosa di ambizioso».
Quali risultati ti aspetti?
«Il mio intento era di usare il premio per fare un investimento sulle persone; creando questa scuola temporanea, diamo competenze a creativi locali che vogliono fare cose, che domani usciranno nel mondo e produrranno realmente queste cose. Il progetto può essere fisicamente effimero, ma durerà nel tempo, perché sarà dentro a queste persone. Questo è ciò che io intendo per arte pubblica. Spero che l’esperienza che forniamo a questi ragazzi sia la miccia per creare qualcosa di migliore. L’altro obiettivo è di creare in loro una maggiore consapevolezza che a Bologna si possano sviluppare progetti, confrontarsi, creare delle piazze di dibattito».
Qual è il tuo punto di vista sulla città?
«Non ero mai stato a Bologna prima; è una città affascinante, per la sua storia incredibile, per la sua ricchezza straordinaria. Ma c’è anche una forte tristezza, un sentimento diffuso di apatia che crede che le cose non possano essere fatte. All’inizio mi dicevano: «Sarà difficile fare il tuo progetto, l’arte è finita in questa città» e io mi sono interessato ancora di più. Come artista vuoi lavorare in posti dove c’è bisogno di te, dove puoi dare qualcosa. Bologna per me era come un enigma. Poi sono stato al Museo Medievale e ho visto la pietra «Aelia Laelia Crispis»: è studiata da tantissimi visitatori che cercano di codificarla, è bella, strana, incomprensibile. Era quello che stavo cercando: un progetto che riformulasse delle domande, che potesse aiutare a ri-immaginare l’enigma di Bologna. Le conversazioni di «Aelia Media» vogliono codificare qualcosa e, al contempo, aiutano a visualizzare quali possano essere le potenzialità culturali e politiche della città».

Dalla prossima settimana, il progetto avvierà la seconda fase: installare la radio mobile di «Aelia Media» in Piazza Puntoni, di fronte alla Pinacoteca Civica e all’Accademia di Belle Arti. Con il contributo delle radio indipendenti di Bologna – Città del Capo Radio Metropolitana, Radio Fujiko e Radio Kairos – e un allestimento eco-sostenibile progettato dai creativi di La Pillola, «Aelia Media» si insinuerà nel tessuto urbano con l’intento di itinerare, nomadicamente, anche in zone più periferiche.
Se per natura i musei non possono essere essi stessi dei «terzi luoghi», sicuramente rendendo più accessibili le strutture di base, condividendo le competenze e mettendo a disposizione i loro network, possono aiutare le loro comunità a costruirseli.

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