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Il bivio decisivo per uno scenario di opportunità

  • Pubblicato il: 16/01/2014 - 23:05
Autore/i: 
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Pier Luigi Sacco

Con l’avvicinarsi dell’avvio del ciclo di programmazione europea 2014-2020, il tema delle politiche culturali sta conoscendo a livello europeo una rapida accelerazione. Malgrado le difficoltà legate alla crisi e agli imperativi della stabilizzazione finanziaria, si avverte una reale esigenza di concretezza che sta spingendo molti paesi ad un progressivo orientamento verso i temi della partecipazione culturale attiva come fattore di benessere e coesione sociale e dell’imprenditoria creativa giovanile come reale opportunità per una generazione che fatica a trovare una collocazione nel sistema economico. Di questo fermento, purtroppo, in Italia arriva al momento una debole eco. I nostri indirizzi strategici di politica culturale continuano ad essere orientati verso i temi obsoleti della valorizzazione, della ricerca di «formule magiche» che ci permettano di attrarre mecenati privati capaci di sopperire ai mezzi sempre più precari alla pubblica amministrazione e di trasformare i nostri beni culturali in improbabili centri di profitto. Eppure pochi paesi come l’Italia avrebbero bisogno di riflettere sull’importanza della partecipazione attiva. E pochi paesi come il nostro avrebbero bisogno di intraprendere un percorso di promozione sistemico per l’imprenditoria creativa giovanile, visti i dati di disoccupazione, che incide anche su profili ad elevata qualificazione.
Perché fatichiamo ad acquisire consapevolezza delle opportunità che l’agenda europea apre malgrado la situazione di allarmante gravità e di oggettivo bisogno? La risposta è in parte semplice: molte delle scelte di strategie culturali pubbliche e private del nostro Paese sono riconducibili a figure che, per ragioni anagrafiche e per la natura dei loro percorsi professionali, non hanno né l’esperienza né gli strumenti per leggere e interpretare i nuovi scenari. La conseguenza è che in un momento in cui il patrimonio si configura come una delle più interessanti e vitali aree di dialogo creativo tra cultura umanistica e nuove tecnologie e quindi come un terreno di ricerca e sperimentazione che potrebbe riportarci sulla frontiera della cultura contemporanea, continuiamo a coltivarne una visione nostalgica e ornamentale, rincorrendo il mito dei grandi eventi, inseguendo velleitari sogni di grandeur, magari a base di costose archistar orma in una fase matura del loro percorso, e più in generale continuando a mettere in atto modelli che, tolta l’effimera e costosa visibilità dei loro promotori, si sono da tempo rivelati socialmente ed economicamente insostenibili. L’agenda europea va in una direzione molto diversa. Malgrado la cultura abbia a disposizione meno risorse e non compaia esplicitamente tra gli obiettivi tematici, la prossima programmazione rappresenta un’opportunità preziosa. Evidenzia come la cultura non debba essere considerata un settore a sé stante, magari riconducibile al più ampio macrosettore dell’intrattenimento e del turismo, quanto come una piattaforma capace di interagire in modo innovativo con le dimensioni più varie della vita economica e sociale. Non a caso, il ciclo comunitario prevede ampi spazi per la cultura come input per la ricerca, lo sviluppo tecnologico e l’innovazione (obiettivo 1), come fattore di innovazione, accesso delle ICT e diffusione della e-culture (obiettivo 2), come elemento di crescita e di competitività delle piccole e medie imprese (obiettivo 3), come strumento di protezione ambientale e di uso efficiente delle risorse attraverso il patrimonio paesaggistico (obiettivo 6), come canale di sostegno all’occupazione attraverso  lo sviluppo di nuove competenze (obiettivo 8) e come fattore di inclusione sociale e di lotta alla povertà e all’emarginazione (obiettivo 9). Per cogliere queste grandi potenzialità, occorre che la cultura trovi un ruolo non strumentale nel contesto economico e sociale di un paese. Ed è proprio qui che la situazione italiana rivela le sue maggiori criticità. Siamo avvitati su una visione obsoleta e non ci rendiamo conto che «le pietre», per quanto meravigliose e celebrate, senza un tessuto civile che le faccia vivere e le sappia proteggere producono costi sociali e non benefici. Ricreare condizioni di partecipazione richiede un percorso lungo e difficile, che lo Stato non può ragionevolmente compiere da solo nel contesto attuale. Sarà quindi decisivo il ruolo delle Fondazioni, in primis ma non soltanto quelle di origine bancaria, che dispongono ancora di mezzi adeguati ad un’azione potenzialmente incisiva e soprattutto di competenze maturate. Un’azione che non dovrebbe orientarsi verso «facili» quanto rassicuranti interventi di conservazione di frammenti di patrimonio o di sostegno alla piccola economia creativa locale, ma piuttosto elaborare uno sforzo ambizioso nel portare la cultura al centro del processo di ricostruzione del tessuto economico e sociale del Paese, premiando l’innovazione nella produzione e nell’imprenditorialità creativa ed esplorandone il potenziale sui temi del welfare, della coesione e della sostenibilità sociale. Ci troviamo dunque di fronte ad un bivio decisivo.
Se le Fondazioni, come ci si augura, vorranno giocare un ruolo nel contesto europeo 2014-2020, come è accaduto in passato con significativi esempi di eccellenza, dovranno essere in grado di cogliere e di interpretare questa nuova filosofia. Mai come ora le Fondazioni possono dimostrare al Paese quanto grande possa essere il loro contributo in una prospettiva in cui necessitano oltre a risorse finanziarie idee, visioni, e competenze – e sono solo queste ultime che possono fare la differenza.

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Pier Luigi Sacco, Professore ordinario di Economia della Cultura e Pro Rettore alle Relazioni Internazionali Univesità IULM, Milano

Dal XIII Rapporto Annuale Fondazioni, Il Giornale dell'Arte numero 338, gennaio 2014