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I tagli non devono essere falciature ma potature: salvifiche e rafforzanti

  • Pubblicato il: 27/05/2011 - 07:16
Autore/i: 
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Catterina Seia
Angelo Miglietta

Professor Miglietta, la Fondazione CRT sta imprimendo un indirizzo forte e molto peculiare ai propri investimenti. Qual è la vostra linea?
Immaginare il nostro intervento nel mondo dell’arte in modo innovativo rispetto ai nostri primi anni di vita è una volontà condivisa ai diversi livelli decisionali: consiglio di amministrazione e consiglio di indirizzo. L’idea di fondo parte dal punto di debolezza centrale del sistema culturale italiano: la sostenibilità. Nate per la privatizzazione del sistema bancario, con le loro erogazioni le fondazioni hanno generato effetti collaterali di rilievo sul sociale; non sempre si è colto lo spirito di quanto possano fare, non sempre si è fatta attenzione che le loro erogazioni non fossero meri sostituti della spesa pubblica locale. Un esempio è il finanziamento degli enti lirici. La loro riforma non ha portato alla risoluzione dei problemi strutturali del settore: pensare alle fondazioni come meri finanziatori è il modo meno utile per il sistema economico di guardare a questi enti. Le fondazioni hanno una macchina operativa piuttosto costosa. Non è efficiente usarle come sostituti della spesa pubblica. Sarebbe molto più logico far assorbire le risorse dal pubblico.

Perché differenziate il vostro operato da quello di altre fondazioni?
Proprio pensando agli enti lirici, ci siamo chiesti: «Che cosa stiamo facendo?». Ci troviamo una parte del bilancio bloccato per finanziare fondazioni di partecipazione che gestiscono soggetti culturali: una delle operazioni più affascinanti sul piano intellettuale, ma che si sta rivelando scarsamente efficace dal punto di vista operativo. Quell’avventura purtroppo ha portato all’affermazione di un principio che è una delle cause della debolezza della cultura oggi: tutte le istituzioni regolate da fondazioni di partecipazione sono fragili. Stiamo parlando di istituzioni di grande pregio. È fondamentale per una fondazione disporre di un patrimonio che possa garantire la propria sussistenza.

È una visione lucida e necessaria, probabilmente poco condivisa o capita.
Abbiamo iniziato a lavorare sul tema prima della crisi finanziaria, nella stagione della bolla, in un periodo di forte espansione delle erogazioni e delle iniziative, fenomeni particolarmente dannosi.
Decidemmo di avviare un nuovo percorso, e questo non nascondo abbia creato qualche malumore nelle amministrazioni locali, che in questi ultimi anni avevano sovente trovato nelle fondazioni una panacea alla crisi finanziaria. Quando le fondazioni di origine bancaria sostituiscono la spesa pubblica locale commettono due errori gravi. Il primo è che distorcono la competizione politica perché diventano un soggetto a favore dell’amministrazione contro l’opposizione: avere i soldi delle fondazioni diventa un vantaggio competitivo. Il secondo è che questi denari non hanno le caratteristiche di «semi che crescono» quindi non generano frutti.

Che cosa avete deciso di fare?
Di lanciare il programma «Venture Philanthropy» intervenendo nel settore della cultura non considerando solo ciò che è bello, ma anche il grado di sostenibilità. Non è soltanto una visione estetica kantiana, ma un radicamento di «ragion pratica», presente nella filosofia come nel pensiero cristiano. Mi sembra che sia Luca a dire: «Non fate opere che poi non siete in grado di portare a termine, perché la gente non rida di voi». Il principio cardine della responsabilità deve accompagnare il mondo della cultura, proprio perché è estensione della spiritualità dell’uomo. Quindi, nonostante le prevedibili difficoltà incontrate, abbiamo deciso di cambiare rotta, puntando ad accumulare risorse in un momento storico favorevole per poter poi lanciare qualche gran- de progetto emblematico, sostenibile in termini di patrimonio.

E la decisione come si è concretizzata?
Con la nascita di una nuova fondazione: la Fondazione Sviluppo e Crescita CRT, che ha l’obiettivo di raccogliere le risorse che definiamo «figlie di eventi straordinari». Una scelta che ci ha consentito di guadare la crisi, mantenendo erogazioni elevate e non riducendo il patrimonio, ma anzi aumentandolo. Non è stato facile assumere quella decisione, nata dal rispetto della nostra finalità etica, dalla fortuna di non avere vincoli di rappresentanza politica, di non dover trovare un facile consenso presso una cittadinanza che purtroppo talvolta non è matura e non comprende che la sostenibilità dei progetti, nella cultura come nell’educazione o nella ricerca, non è meno rilevante della bellezza del progetto in sé. Soffro per i finanziamenti dati a monumenti sostanzialmente non fruibili. Dobbiamo sempre chiederci come la cultura possa diventare di interesse partecipato e diffuso.

Così avete deciso di assumere impegni molto importanti nell’arte contemporanea, il che vi distingue rispetto a qualsiasi altra fondazione italiana. È un campo nel quale occorrono visione, consapevolezza e coraggio. Avete una Fondazione per l’Arte, una straordinaria collezione, ora avete aggiunto uno straordinario impegno sulle Officine Grandi Riparazioni.
Da dieci anni la Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea - CRT è impegnata a favorire e promuovere l’arte contemporanea, intesa come fattore di innovazione e sviluppo sociale, sia attraverso il potenziamento della propria collezione, messa al servizio della GAM di Torino e del Castello di Rivoli, sia attraverso il sostegno allo sviluppo del sistema arte contemporanea di Torino e del Piemonte attraverso importanti progetti di sistema quali Giorno per Giorno, Zonarte e Res.ò. È faticoso, ma abbiamo raggiunto un largo consenso. L’importante e pensare alla cultura non solo legandola al nostro patrimonio artistico, ma anche alla produzione. La Regione Piemonte partecipa a molte nostre iniziative per renderle più forti. Siamo passati dalla fondazione che sostituisce la spesa pubblica e a un privato che si fa pubblico, a un pubblico che accetta di farsi privato. Non è una generica tassonomia ideologica, ma i privati come noi, non orientati al profitto, grazie a facilitazioni normative, possono intervenire più celermente rispetto al pubblico. Già negli anni sessanta negli Stati Uniti le fondazioni svolgevano un grande ruolo di sperimentatori sociali. Questi modelli di gestione possono essere un modo per introdurre anche nel nostro Paese quegli stilemi della Big Society che rappresentano il tentativo di rendere molto più efficiente la spesa per interessi di pubblica utilità.

Torino è centrale in questi Vostri progetti?
A Torino la Fondazione ha trovato interlocutori pubblici che nella loro lungimiranza hanno accettato sfide importanti. Torino ha la grande fortuna di avere due grandi fondazioni: oltre a noi, una grandissima, la Compagnia di San Paolo, che ha un patrimonio di circa un terzo maggiore del nostro. La sfortuna della città è la situazione complessa dei conti del Comune. Era inevitabile che anche Torino dovesse assumere decisioni che si scontrano con la durissima legge dei numeri. L’indebitamento pubblico è nemico della civiltà stessa, ne causa la distruzione: il declino di Spagna, Grecia e Portogallo nasce da operazioni di finanza pubblica.

Il Vostro «Venture Philanthropy» connota la cultura o è la strategia dei Vostri settori di intervento?
A dire il vero caratterizza di più altri settori. Quando interveniamo nei meeting internazionali della European Venture Philanthropy Association, sono sorpresi dai nostri esempi, più forti nella cultura, che nel sociale. Ciò nasce dalla specificità italiana di avere uno straordinario patrimonio culturale, artistico e paesaggistico. Noi desideriamo affermare un modello di sviluppo culturale nel quale un direttore di un museo non debba chiedere la cortesia di un’erogazione, ma sia responsabilizzato ed abbia la piena dignità nello svolgimento della sua funzione, con la sua autonomia. D’altro canto, creare un’istituzione per gestire un bene culturale senza dotarla di un adeguato patrimonio è come creare una società di capitali senza capitali.

Come si inquadrano le OGR nella filosofia della Vostra «Venture Philanthropy»?
Pienamente. Portano a sistema un polo della cultura contemporanea, non solo dell’arte contemporanea, con attività di ricerca nelle tecnologie per i new media che faremo col Politecnico, in una forma cross tra linguaggi. Il polo verrà affiancato da un grande centro congressi che deve diventare quello che non è diventato il Pompidou: un melting pot di produzione culturale. Questa è la sfida delle OGR in un luogo che può essere veramente uno dei gangli d’Europa: quando i treni funzioneranno si andrà a Lione in due ore e mezzo... Torino potrà essere al centro di uno snodo fondamentale e non chiusa dalle Alpi. Obiettivo? Il 2015. Portare molto Expo a Torino.

Nelle OGR investite una cifra molto rilevante.
Sono investimenti immobiliari importanti con fondi in cui mettiamo il nostro patrimonio e parte delle risorse che abbiamo accantonato. Investiremo 180 milioni di euro. Creeremo una fondazione ad hoc, la Fondazione OGR CRT, che avrà l’obiettivo di gestirle e di organizzare un sistema della cultura del nostro Piemonte, con aperture verso Milano e la Francia. È un progetto aperto con una vocazione internazionale. La Regione partecipa, convinta che il progetto sia interessante e che vada messo a sistema con l’esistente. La sfida è progettare insieme, riapplicando i metodi del modello Torino, senza però il baratro della fragilità finanziaria, che rischierebbe di rovinare tutto. Distruggere la bellezza per non aver saputo pianificare è più grave che non aver creato la bellezza.

Come giudica l’attuale politica dei tagli pubblici?
Cito una metafora che ha a che fare con l’agricoltura. Tutti coloro che coltivano la terra sanno quanto sia importante la funzione salvifica e rafforzante della potatura: se non sai potare non avrai frutti. Se falci, distruggi tutto e cresce più in fretta l’erba cattiva. Noi stiamo vivendo una stagione in cui mi pare che i tagli siano delle falciature, invece dobbiamo fare potature per realizzare grandi progetti. La quantità è il peggior nemico della cultura.
Prenda Milano. Il Museo del Novecento, con pochi investimenti, ha avuto un enorme successo. Sul piano artistico la città è ora forte su tre grandi punti: oltre al Museo del Novecento, Brera e Triennale. Formano un sistema in una città che non era attrattiva. A Torino abbiamo un sistema dell’arte contemporanea formato da GAM e Rivoli che non è da meno; nel recente passato abbiamo avuto le Olimpiadi, un fatto che da solo apre prospetti- ve incredibili. Credo che l’importanza di sapersi focalizzare sia fondamentale. È la scelta di chi è sicuro di avere qualcosa di speciale, di unico. Per questo siamo posizionati sull’arte contemporanea: fu una scelta di caratterizzazione che dura nel tempo.

Lei è Professore ordinario di Economia delle aziende e dei mercati internazionali nell’Università IULM di Milano. Si è avvicinato Lei alle fondazioni o le fondazioni sono venute a cercarLa?
Nel 1993 fui nominato consigliere di amministrazione dalla Cariplo quasi per caso. Conobbi questo mondo quando ancora non erano chiare le leggi. Ho un background legato agli studi di finanza e una sensibilità personale per la filosofia. Ho desiderio di sperimentare metodologie di carattere manageriale nel campo culturale, non perché la cultura debba generare profitto (trovo la cosa volgare, è come dire che un uomo deve rendere), ma perché sono convinto che la cultura, come una persona, debba dare il meglio di sé. Ciò in cui ho trovato molte avversità è stato dimostrare che la cultura non è necessariamente un prodotto ideologico. Riconosciamo la cultura, perché è il modo in cui riconosciamo l’identità dell’umanità. Ho troppi colleghi economisti che conoscono le formule, ma non la storia. Porto avanti una sfida con Giovanni Puglisi, filosofo, Presidente del Banco di Sicilia e Rettore dello IULM: far partire allo IULM un corso di laurea in Filosofia per il management. Un manager che non abbia una base umanistica non può occuparsi di persone.

Si interessa di politica?
Siamo in tempi di declino di una democrazia e di una società: se ci fosse una politica che non ha timore di farsi carico delle proprie responsabilità... Si parla molto male della classe politica del nostro Paese, ma nessuno ha il coraggio di dire che la classe politica si comporta in modo di farsi rieleggere. Se abbiamo una classe politica clientelare è perché i cittadini hanno una mentalità clientelare.

Non pensa che questo deficit politico del Paese non sia che l’inevitabile conseguenza della decadenza educativa della scuola?
Abbiamo distrutto il sistema educativo in maniera incessante dagli anni sessanta in poi e purtroppo i risultati si vedono. Anche la cultura dominante anglosassone non è colta. I pensieri forti ai giorni nostri sono l’espressione del mondo economico, che a sua volta dipende dal mondo bancario e finanziario. Ciò nega la democrazia, perché non può essere un sistema di interessi a regolare la politica. Una politica forte non può seguire l’agenda di interessi economici e finanziari. Questo è un problema gravissimo: è la fine della democrazia.

Angelo Miglietta è Segretario Generale della Fondazione CRT e Professore ordinario di Economia delle aziende e dei mercati internazionali all’Università IULM di Milano

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