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I riflessi fondamentali di una riforma irreversibile

  • Pubblicato il: 25/08/2017 - 15:34
Autore/i: 
Rubrica: 
MUSEO QUO VADIS?
Articolo a cura di: 
Catterina Seia

La riforma dei musei era necessaria. “E’ stato importantissimo istituire delle figure giuridicamente definite, articolate nei loro compiti rispetto alle Soprintendenze, che prendessero cura della dimensione museale. In questo modo, per altro coerente con quanto indicato da molti, è’ stata definita  una perimetrazione, un'area di responsabilità, dalla quale è possibile partire per  chiedere  progetti e misurare dei risultati.  Semplificando: nella struttura precedente i compiti delle Soprintendenze includevano aree molto diversificate, tanto da rendere pressochè impossibile una valutazione e forse neppure responsabilotà rispetto a obiettivi condivisi. Di fatto i  musei statali - per i poli autonomi il discorso era già diverso - erano in grado di esistere, ma salvo eccezioni  difficilmente  riuscivano a svolgere ruoli attivi nella relazione con le città, con i visitatori e il grande pubblico.  Definire un perimetro di responsabilità, chiedere ai direttori dei musei di sviluppare una progettazione strategica, che compendiasse  la parte culturale e la parte di sostenibilità, ristrutturare a partire da questa posizione il rapporto con il privato, è stato un passo fondamentale. Il concetto di valorizzazione – lo si riconosce anche nel Testo Unico - era tradizionalmente inteso in senso riduttivo, come attività di carattere economico commerciale e quindi affidabile a privati in regime concessorio. Nel tempo si è riconosciuto che la valorizzazione, la definizione di una strategia culturale e di sostenibilità, è un compito dell’istituzione, che essendo pubblica deve declinarlo a scopi pubblici.” Conversiamo con Stefano Baia Curioni, professore al dipartimento di analisi istituzionale dell’Università Bocconi, presidente di Palazzo Te, e già membro del Consiglio Superiore dei Beni Culturali del Mibact sugli esiti della riforma Franceschini”. “La revisione del rapporto tra istituzioni museali e privati è una delle conseguenze più delicate, ma anche più interessanti della riforma. Vale, grazie ad essa, il principio che ogni istituzione prende la responsabilità di decidere cosa gestire direttamente, cosa esternalizzare e perché, e in che modo, cosa chiedere in cambio. (…) Penso che lo snodo istituzionale centrale, oggi attivabile, sia nel ruolo della  Direzione Generale Musei, che oggi mi pare sia stata affidata  a uno specialista capace. (ndr. Antonio Lampis)”
 


  
Conversiamo con Stefano Baia Curioni, economista della Cultura, docente all’Università Bocconi, sugli esiti sul campo della  riforma Franceschini,  non certamente  perfetta ma, come diciamo spesso,  il meglio è nemico del bene. 
La riforma dei musei è stata nel complesso positiva. Non solo per i numeri dei visitatori di quest’anno. Molti interventi avranno esiti di lungo termine: sulle infrastrutture, procedure, sistemi organizzativi, nuove forme di collaborazione con i privati.
 
Era necessario far nascere un’ecologia capace di dare dignità alle istituzioni museali.
E’ un fatto: la maggior parte di musei italiani, essendo sezioni di organismi più ampi come le soprintendenze, era caratterizzato da un regime di controlli e incentivi di carattere puramente pubblico. Mancava in sostanza dei più elementari strumenti di gestione e controllo tipici di istituzioni – anche pubbliche – ma gestite con criteri privatistici di efficienza ed efficacia.
Nei principali musei non esisteva, ad esempio, la cognizione dei costi diretti di funzionamento: dalle utenze ai servizi più sofisticati. Non c’erano i dati, o meglio erano immersi nei costi generali della soprintendenza, e nessuno strumento per controllare, fare  budget. Allo stesso modo gli obiettivi del museo erano una componente delle attività più generali della soprintendenza. Infatti in molti casi tutti questi dati sono stati ricalcolati.
 
La precedente gestione dei musei era squisitamente scientifica?
Non direi, la gestione di un museo è sempre sia scientifica che operativa. E’ impossibile fare una diagnosi unica per istituti tanto diversi tra loro, probabilmente si può dire che mancava un quadro di responsabilità orientato a mettere a fuoco le qualità specifica della gestione museale. Non vi erano gli incentivi e talvolta nemmeno le competenze per farlo.  Il rapporto con i privati (che invece sono realtà gestite imprenditorialmente) non aveva prodotto un travaso di competenze, ma piuttosto situazioni in cui alcune attività centrali dell’istituzione culturale come la produzione di mostre era stata delegata con pochi strumenti di controllo, e talvolta anche con ben poco interesse a controllare.
Il risultato era una situazione in cui il sistema pubblico, in difficoltà per i tagli e la farragine normativa, gestiva alla meglio, ma non senza approssimazioni, con controlli inadeguati, con obiettivi impliciti, poca comunicazione e alla fine anche competenze sempre più concentrate su una parte dei compiti del museo, distratte rispetto al compito della gestione del rapporto con il visitatore ad esempio. La delega al privato in regime di concessione era di fatto il riconoscimento di una non capacità…Ma Fare cultura non significa rinunciare alla responsabilità, gestire senza attenzione e non lo giustifica.
 
Tutto quanto esisteva prima della riforma era inadeguato?
No ovviamente, ma sono convinto che, data la complessità oggi implicita nella gestione dei grandi musei italiani e del loro sistema, si fosse arrivati a un punto critico che apriva due alternative:  tentare di ripristinare un governo pubblico degli stessi, prendendo piena responsabilità di tutti i processi - dalla ricerca alla valorizzazione -  o  procedere a una sostanziale privatizzazione attraverso concessioni allargate e in global service.
Non mancavano voci o ragioni per entrambe le strade. La scelta di rinforzare il governo pubblico creando istituzioni responsabili è, a mio avviso, corretta. Non per motivi ideologici, ma per la natura semipubblica dei beni culturali che creano un valore a molte dimensioni e diretto a molti differenti interlocutori ed è bene siano gestiti (bene) in una prospettiva pubblicistica. Sono posizioni note da tempo.
 
La situazione era diversificata nell’arcipelago vasto dei musei, ma era chiaro che alcuni  meccanismi dovevano essere smantellati.
L’affidamento di ruoli di responsabilità a specialisti ha già di per sé implicato lo smantellamento del sistema precedente in cui, in modo progressivo e implicito, molte responsabilità istituzionalmente centrali erano state affidate ai privati, in presenza di un sistema pubblico privo di obiettivi che non fossero di mera esistenza dei beni.
Decidere di far ripartire la funzione strategica da un direttore museale responsabilizzato e dotato almeno di autonomia amministrativa, ovviamente rimescola le carte in modo sostanziale. Per fare un esempio, un direttore di museo “deve” avere un’idea delle caratteristiche del pubblico che frequenta la propria istituzione: da dove viene, quali altri siti frequenta, quali sono le aspettative, i pensieri, le conoscenze… Pare ovvio, altrimenti come possono essere prese decisioni per il bene pubblico? Tutto questo semplicemente non era noto, è sufficiente chiederlo a qualunque dei direttori oggi in carica: non si aveva alcuna idea empiricamente sostenuta del pubblico, con informazioni strutturate.  Forse alcuni concessionari privati avevano qualche nozione, ma non erano tenuti per contratto a condividerla con i soprintendenti. La curva di apprendimento non coinvolgeva il sistema pubblico.
 
Oggi la macchina operativa centrale  è adeguata verso la spinta territoriale o mostra le corde?
La macchina centrale arriva a questo appuntamento in uno stato di debolezza molto preoccupante. Il dato sul mancato rinnovo delle competenze negli ultimi anni è stato ampiamente commentato da molti. Gli inevitabili contraccolpi della riforma hanno prodotto ulteriore sfiducia e disorientamento. C’è passione ideologica, ma onestamente, non molta competenza operativa e molta disillusione con una farragine mostruosa di norme e un sistema complessivo del pubblico impiego che rappresenta forse l’orizzonte più problematico e complesso per l’intero sistema paese.
Dall’esterno è molto difficile aiutare se non impossibile. Alcuni funzionari lavorano 25 ore al giorno e altri partecipano invece ad una specie sciopero bianco non dichiarato, lavorano in modo molto passivo, non decidono, chiedono l'interpretazione di qualunque disposizione. E quando un sistema burocratico comincia con queste forme di resistenza…diventa difficile.
Il tema è molto complesso e non riguarda solo il Ministero dei beni culturali, anche se il Mibact ha avuto in 15 anni tagli superiori al 35% delle risorse.
Oggi l’inserimento di nuove competenze può offrire riconoscimento e rilancio nei nuovi ambienti, ma anche nel  percorso formativo delle nuove figure da inserire occorreranno cambiamenti.
 
Qual è il nodo nell'implementazione del nuovo modello?
Non si tratta di attribuire colpe, ma di correggere un sistema di incentivi e di rapporti. Ovviamente si tratta di una correzione rischiosa che oltretutto trova, ha trovato e troverà fortissime resistenze. Il fatto che un sistema di gestione non sia ottimale o accettabile non significa infatti che non abbia  forme di equilibrio in cui gli attori trovano convenienze e consuetudini che ovviamente si mescolano con capacità, relazioni, storia.  Tutto ciò non cambia facilmente.
Ma credo che la via  sia  tracciata. Penso che un sistema di musei pubblici ben gestiti offra nuove opportunità per il settore privato della gestione del patrimonio. Esistono spazi enormi nelle città italiane per lo sviluppo di politiche industriali della cultura in cui i privati possono avere ruoli centrali di investimento e gestione.
 
I privati sono la grande risorsa?
I privati potranno trovare ampi spazi agendo su piani industriali di sistema. Cosa vuol dire gestire una città d’arte italiana mettendo in rapporto il patrimonio culturale e lo sviluppo locale? Quanti investimenti, quanti livelli di coordinamento, quante opportunità si possono presentare?
Questo ovviamente implica un cambiamento, investimenti, il coraggio di mollare alcune rendite di posizione guadagnate in questi anni. Occorrono amministratori comunali capaci. Non è certamente facile e non lo sarà. E’ possibile immaginare un vero rimescolamento competitivo del comparto, con l’ingresso di nuovi attori.
 
Un cambiamento non si opera senza risorse umane che però, se non erro, sono di competenza della struttura centrale.
Si tratta certamente un enorme vincolo, che però riguarda tutta la macchina statale.  Non credo fosse possibile applicare una sorta di eccezione per la Cultura, privatizzando la gestione del personale nei musei senza una riforma complessiva del pubblico impiego.
L’unica risposta praticabile oggi (non diversamente dal passato) sta nella relazione con il privato: ma in una relazione rinnovata, è il museo – l’istituzione pubblica - che deve decidere cosa fare direttamente, cosa comprare, come nel quadro di un piano gestionale specifico. Prendendosi la piena responsabilità di queste scelte. Esiste Ales, esistono appalti di servizio, accordi quadro, concessioni, volontari e amici dei musei.  E’ possibile compensare le carenze interne con meccanismi di esternalizzazione controllata.  Ad esempio, se manca personale che garantisce un front e un back office decente di biglietteria, è possibile “acquistarlo”. I musei, come istituzioni pubbliche, devono inglobale competenze private, devono imparare a gestirsi in modo consapevole, trasparente, condiviso, efficiente. Perché questo succeda occorre che si trasformino come istituzioni pubbliche inglobando metodi e strumenti di una gestione privata. Mentre è bene che gli obiettivi restino orientati al pubblico interesse.
 
Ovviamente siamo al numero zero di questo nuovo corso. Due anni sono ben pochi davanti alla complessità e alla mancanza di strumenti.
Penso che lo snodo istituzionale centrale, oggi attivabile, sia nel ruolo della Direzione Generale Musei, che oggi mi pare sia stata affidata  a uno specialista capace.  Nello schema complessivo infatti non sono tanto i cda dei musei (che hanno compiti prevalentemente di controllo amministrativo), ma è la DG musei a svolgere un ruolo, delicato e difficile, di coordinamento strategico.
Ovviamente qui si gioca un’altra partita cruciale costituita dal rapporto tra i contesti urbani locali e un disegno nazionale. Ovviamente i direttori e le istituzioni vivono localmente, devono avere rapporti con i sindaci e gli assessori alla cultura, devono prendere parte a una elaborazione strategica che risponde a logiche urbane. La DG ha una visione più complessiva. Una gestione intelligente del ruolo credo possa rappresentare uno degli elementi centrali per lo sviluppo della riforma.
 
Altri punti di debolezza?
A parte quanto si è detto sulle risorse umane...Forse i comitati scientifici, nominati dagli enti locali e dallo Stato, sono un punto un po’ fragile dell’impianto complessivo. In certi casi funzionano in altri molto meno ed è difficile rimediare. L’altra è che in situazioni in cui il potere è molto accentrato nei direttori, l’elemento idiosincratico, soggettivo, è difficile da aggirare. Per questo sarà importante un bilanciamento da parte della DG musei.
Ad ogni modo il fatto che vi sia tensione e dibattito tra Direttori e Comitati scientifici (è successo a Brera, alla Gnam, agli Uffizi) è anche il segno che il sistema è vibrante e funziona.
 
Anche la copertura dei ruoli di governo dei musei dovrà essere più mirata?
La prima tornata di selezione ha trovato candidati disponibili a prendersi il rischio di aprire la strada. Quando l’esperimento si consoliderà nel tempo i musei italiani potranno attrarre candidati  disponibili a  sopportare un livello  minore di rischio. Accade anche nelle aziende; le piccole e nuove hanno basi di reclutamento minori.  Scegliere contemporaneamente 20 dirigenti (che poi sono 40 stati includendo i Poli) implica ovviamente la possibilità  di commettere errori, ma credo che si possa essere molto soddisfatti del risultato complessivo. Lo stato delle cose nelle singole istituzioni era davvero, davvero problematica, ormai inaccettabile.  
 
In termini di governance vedremo l’evoluzione dei grandi musei, dei poli in fondazioni, come per le Antichità Egizie?
In alcuni casi potrebbe non essere insensato. In altri casi lo sarebbe. Dipende da che tipo di fondazione stiamo parlando. Ce ne sono di diversi tipi. L’errore sarebbe affrontare la cosa ideologicamente. La fondazione è uno strumento. E’ però vero che i tempi non sono ancora maturi. Occorre prima che si rinforzi la DG Musei, per armonizzare il ruolo dei direttori dei musei autonomi senza ostacolarli, per sostenere il lavoro del consiglio di amministrazione e dei comitati scientifici, tutti organi, tra virgolette, consultivi (ndr: il direttore è anche presidente del consiglio di amministrazione). Nel disegno complessivo, pur essendo autonomi, i musei sono fermamente parte dello Stato, si suppone quindi che rispondano alla DG del Ministero. Quindi la DG Musei è l'organismo di temperamento e di perequazione, che dovrebbe elaborare la strategia generale di sistema, per questo va rinforzata.
Dopo aver rinforzato la DG Musei, domani, forse, valutato caso per caso, alcuni musei potranno essere rivisti in fondazioni, laddove  c'è più maturità,  un contesto più favorevole, laddove l’operazione possa essere condotta con un minore impatto anche sul piano delle risorse umane.
 
Eravamo vicini alla bancarotta, oggi siamo in salvo?
L’ho già detto. Si era prossimi a una rilevante crisi di funzionamento. Tanto da rendere prossima anche l’ipotesi di una completa privatizzazione.  Occorre vedere sul campo per rendersene conto. Davvero tante volte ho dovuto domandarmi perché per tanto tempo si è ritenuto che una istituzione culturale potesse rappresentare un’eccezione rispetto ai criteri di buona gestione. Qual è il valore di difendere una gestione inadeguata? In che mondo questo è un valore? Che valore ha ignorare i dati fondamentali della gestione specifica dell’istituzione, se l’esperienza di visita è adeguata?  Se i bagni sono puliti per i visitatori, se le luci sono ben posizionate sulle opere, se le didascalie sono aggiornate e leggibili? E’ un valore non dichiarare i propri obiettivi e i propri risultati? Avere rapporti con le comunità locali privi di un contenuto strategico, non rispondere ai loro bisogni reali di competenze e di crescita? Nessun valore.
 
Il timore dei puristi è contraddire con la gestione manageriale l’istanza culturale.
La cultura chiede buona gestione, questa si realizza applicando metodi simili o uguali a quelli presenti nel privato, per raggiungere obiettivi di utilità pubblica. Sembra semplice come principio. Purtroppo non credo sia un mistero la presenza – nel campo dei beni culturali - di un fronte ideologico compatto e incapace di alimentarsi della realtà dei fatti. E di una critica troppo spesso incurante delle cose. Le cose. D’altra parte lo diceva Hanna Arendt, l’irriverenza verso la realtà di fatto (leggi: la menzogna) è una delle caratteristiche più rilassanti e pericolose dell’ideologia. Toglie complessità, semplifica, rilassa, e alla lunga asservisce.
Perché le cose siano gestite occorre creare sistemi (ecologie se vuoi) di incentivi che consentano la libertà di movimento e la convergenza verso comportamenti virtuosi. Gli incentivi a una buona gestione, orientata alle comunità, alle competenze, alla formazione, e al turismo non ledono la cultura.
Posso anche essere più preciso: la critica adorniana che imputava all’industria culturale e alla dittatura del valore di scambio la corruzione della produzione culturale non è infondata. Il fatto è che la buona gestione culturale, quella che si auspica possa svilupparsi, non è orientata solo al valore di scambio, ma anche se vogliamo stare sulla terminologia originaria, al valore d’uso o meglio a una molteplicità di forme di valore.  Se mai, a tendere, anche a una critica della nozione stessa di valore.
Il nuovo allestimento di Brera, per fare un esempio, è stato curato da persone come Giovanni Agosti, Alessandro Morandotti. Può essere discusso, ma è di livello. Credo sinceramente che il museo di Brera stia diventando migliore. E chi usa incidenti di percorso come il malfunzionamento di impianti di climatizzazione (predisposti prima e ora in corso di rinnovo) o un evento venuto forse meno bene del previsto per gridare allo scandalo è pretestuoso. Non è la fine della storia, ben inteso, se mai il primo inizio di un corso che andrà sostenuto nel tempo.
Altro esempio. Ho discusso pubblicamente il primo rapporto di sostenibilità del MANN-Museo Archeologico nazionale di Napoli. Si può discutere sulla qualità del rapporto che, come tutto, può essere migliorabile.  Ma, attenzione, è fatto! E’ un report, pieno di numeri, di fatti, di programmi e di persone. E’ il segnale di un desiderio di comunicare che corrisponde ad una complessiva, evidente, vivezza dell’istituzione. Oggi il MANN è un museo che si sta attivando in modi nuovi.  Era un fatto raro. Oggi comincia ad accadere.
 
L’ìmpianto delineato può reggere nel futuro o c’è il rischio di ritracciamento al termine della legislatura?
Secondo me può durare. Ci saranno delle correzioni da fare. Occorre tempo, ma è stato compiuto un  passo importante. Ovviamente il fatto di creare una configurazione di responsabilità gestionale e culturale sui musei, non vuol dire che si sia risolto il problema. Significa piuttosto che si è cominciato a cercare una soluzione.
Ogni museo e ogni luogo dovrà trovare una risposta: l’orientamento al turismo globale non è certo l’unica strada, esiste il grande tema del capacity building, del marketing urbano, dello sviluppo locale.
Credo cha la recente sentenza del Consiglio di Stato abbia mostrato che la riforma è irreversibile. Il punto in discussione è come tradurla in fatti. A oggi buona parte della struttura ministeriale è sotto stress e di fatto risponde in modo piuttosto inadeguato.
 
Parliamo della sua esperienza a Mantova. Lei è Presidente della Fondazione Palazzo Te. Cos’è accaduto con la Capitale della Cultura?

Mantova, città ricchissima di tradizione ma in rallentamento economico, toccata della crisi industriale, sta elaborando un progetto urbano dopo anni di assenza, deve combattere una disoccupazione giovanile  alta rispetto alla Lombardia e un continuo rischio di brain drain. Una situazione analoga alle città della corona larga intorno alla grande Milano. È chiaro che in futuro l'attrattività delle grandi economie urbane porrà un serissimo problema per le città di piccole e medie dimensioni circostanti. E’ un processo irreversibile e dagli esiti potenzialmente problematici a meno di non contrapporgli processi organici e condivisi di sviluppo a base culturale capaci di accompagnare interventi infrastrutturali. D’accordo con la commissione Cammelli, nel nuovo bando sulla Capitale della Cultura abbiamo dato un taglio molto diverso da quello originale, più focalizzato sull’attività turistica. Il regolamento ha premiato progetti privati in cui l'attività turistica era integrata alla formazione di competenze, la job creation, l'inclusione, la capacitazione insieme di una politica base culturale. Speriamo che Palermo risponda all’appuntamento come il progetto ha promesso.
 
Si è innestato un cambiamento?
Oggi, istituzionalmente, il premio Capitale Italiana della Cultura sostiene progetti di politica territoriale a base culturale.
A Mantova ne abbiamo visto gli esiti non solo per l’aumento molto sensibile dei flussi turistici (confermati anche quest’anno), ma anche per la nuova voglia di fare sistema che si sente in città.
Giusto per fare un esempio, quest'anno, per la prima volta, il Festival di Letteratura – tradizionalmente e giustamente geloso della propria eccellenza - farà una co-produzione con Palazzo Te. Secondo me questo è bel successo per la politica culturale. I musei devono ridefinire i loro perimetri.
Mantova è una città sorprendente, piena di cultura e di competenze, spesso capace di esprimere eccellenze che restano nascoste. E’ mancato alla città un contesto capace di generare un'economia positiva della cultura. Mancavano le cuciture. La Capitale della Cultura è un inizio.
 
Palazzo Te è molto vitale.
D’accordo con il sindaco Mattia Palazzi e con gli organi dell’associazione abbiamo deciso di riposizionare fortemente il Centro Internazionale di Palazzo Te, originariamente nato per fare mostre. Oggi il centro si propone di essere un sistema di produzione multidisciplinare orientato a favorire lo sviluppo di politiche urbane a base culturale.
Naturalmente continuiamo anche a fare mostre, con Palazzo Ducale faremo una mostra su Giulio Romano nel 2019. Quest’anno ne abbiamo prodotta una a dialogo tra Tacita Dean e Giorgio Morandi con il supporto della Gnam di Roma, e una seconda che aprirà il 30 settembre sulla straordinaria collezione di tessuti di Antonio Ratti e sul rapporto tra cultura di impresa e umanesimo.
Ma le cose nuove fatte quest’anno riguardano i workshop formativi con Stefano Arienti, Virgilio Sieni e Melina Mulas. Con il Festival di letteratura presenteremo tre notti dedicate al rapporto tra parola e canto, con molte produzioni, reading, musiche e poesia il 7, 8 e  9 settembre dalle 18 a mezzanotte.
Per due anni abbiamo lavorato con Virgilio Sieni su un progetto che ha previsto la presenza di 80 persone, cittadini del territorio, per 4 mesi a palazzo Te, sui temi della consapevolezza corporea, dell’alterità e della fragilità. Per vari mesi abbiamo lavorato con teatro Magro che ha sviluppato progetti di coinvolgimento sociale basati sui temi delle mostre, con Mantova Playground e Artway of thinking per progetti didattici.
L’anno scorso abbiamo organizzato un convegno importante sulle città d’arte cui ha partecipato il presidente della repubblica e ha accompagnato un impegno statale significativo per la ristrutturazione del palazzo.
Attrarre i turisti è importante, ma occorre lavorare eticamente e su diverse linee di relazione con il contesto: i musei possono, devono diventare agenti trasformativi nella cultura contemporanea.
 
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