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I musei sono i nuovi centri sociali dell’epoca contemporanea?

  • Pubblicato il: 14/06/2016 - 19:19
Autore/i: 
Rubrica: 
MUSEO QUO VADIS?
Articolo a cura di: 
Neve Mazzoleni

Abbiamo conversato con Maria Chiara Ciaccheri, giovane progettista e formatrice esperta di temi di accessibilità alla cultura, sulla trasformazione che i musei stanno vivendo verso un dialogo più interattivo con il pubblico di riferimento, con un commento sulle nuove linee guida della comunicazione museale pubblicate dal Mibact. Il punto di vista di un operatore indipendente sul tema dell’attivazione dei pubblici alla cultura

Partiamo da: che cosa fai e quali sono i tuoi ambiti di indagine.
Mi occupo di temi legati all’inclusione e al coinvolgimento dei pubblici museali con un focus specifico sulle strategie per facilitare l’accessibilità di adulti con disabilità cognitiva. Associo a questo ambito, per il quale lavoro soprattutto come progettista e formatrice, l’esperienza metodologica della progettazione partecipata e della facilitazione a partire dalla quale ho sviluppato diverse proposte che si interrogano sulle modalità di apprendimento rivolti a pubblici differenti e non solo con disabilità.

Cosa si intende per accessibilità museale? E per audience engagement? Sono lo stesso concetto?
All’accessibilità museale si associano, anche a livello internazionale, due possibili sfere: quell’ambito disciplinare che mira all’abbattimento delle barriere di tutti i visitatori (con riferimento, ad esempio, all’accessibilità culturale o quella economica) e quello più specifico finalizzato all’inclusione di persone con disabilità. In particolare con quest’ultima accezione ci riferiamo, in Italia, ad una disciplina il cui processo di riconoscimento è tuttavia in corso e i cui confini non sono definiti, soprattutto se pensiamo a questioni di tipo cognitivo. In questo senso, almeno dal mio punto di vista, l’accessibilità deve rappresentare un’opportunità, forse addirittura un pretesto, per ripensare ai nostri musei tout court.
L’audience engagement per sua stessa definizione, risponde invece ad una cornice più ampia, sovrapponendosi chiaramente ai discorsi sull’accessibilità vera e propria: per entrambe il discorso si focalizza sulla necessità di sperimentare e dunque valutare nuovi approcci a partire dall’identificazione dei visitatori e dei loro bisogni, all’interno di uno spazio come quello museale che sta progressivamente assumendo nuove valenze.

Quale la diffusione di queste riflessioni?
In questo momento storico, i paesi trainanti della disciplina da un punto di vista museale sono certamente gli Stati Uniti per ragioni sociali, legislative e culturali. Quantomeno in alcune grandi città. Sul fronte teorico, rispetto ad un portato percettivo della disabilità al museo, è invece imprescindibile citare la Gran Bretagna e l’Università di Leicester capofila negli studi del settore.
Nel 2014 ho trascorso alcuni mesi al Metropolitan Museum di New York studiando il loro lavoro e questa istituzione è certamente fra i musei che da più tempo (la prima esperienza è datata 1908) sperimentano soluzioni articolate per l’accessibilità, affiancate da una profonda riflessione sulle sue ricadute rivolte a tutti i pubblici. Il divario, in generale con gli Stati Uniti ma anche con altri paesi europei, è dunque principalmente temporale ma anche più propriamente culturale: non potremmo occuparci di accessibilità con competenza finché non lavoreremo sulle percezioni correlate alla disabilità. Per questo motivo la formazione del personale è un aspetto imprescindibile anche a fronte dell’adozione di strumenti o soluzioni specifiche. L’accessibilità totale, dopotutto, resta comunque un’aspirazione, un tendere verso: il modello di un museo completamente accessibile non esiste, anche in quei casi in cui ogni progettazione include fin dagli esordi il coinvolgimento di referenti per l’accessibilità. Ci sono certamente degli standard o anche delle linee guida (penso a quelle formulate dallo Smithsonian Institute o da quello che era il Museums Library and Archives britannico) che però non esauriscono un settore che deve ambire sempre a maggior complessità e integrazione istituzionale, continuando a nutrirsi di ricerca e, secondo me, anche di sperimentazioni ibride.

Quali istituzioni si devono occupare di temi di accessibilità?
L’accessibilità dovrebbe essere un diritto proprio dei cittadini e, di conseguenza, un dovere pubblico a maggior ragione quando, opportunamente modulata, è in grado di offrire un servizio non solo culturale ma anche sociale. Come sempre però, tutto dipende dall’accezione che diamo al termine accessibilità. Le istituzioni dovrebbero certamente fare proprio il principio per cui non esiste un visitatore medio cui riferirsi: dovrebbero, in modo puntuale, trovare strade che rispondano a dei bisogni ma anche, parimenti, li sollecitino. Nella realtà accade anche che talvolta ci riescano ma, fatto salvo per certe sensibilità personali, sono spesso vittima di impalcature rigide, di una cultura estremamente lineare e di tradizione. Il museo accessibile cui mi riferisco è un museo che necessita anche di profili professionali spuri, che agiscano superando le norme correnti e, nella piena consapevolezza di una missione condivisa, si interroghino profondamente sul proprio ruolo. Rompere le barriere per mettersi in radicale discussione: e in questo senso ci riescono più facilmente realtà indipendenti o private, talvolta anche piccole, rispetto alle istituzioni culturali riconosciute, nel tentativo anche di colmare un divario fra teoria e prassi che allo stato attuale è chiaramente evidente.

Quale ricerca stai conducendo sui supporti museali? Cosa pensi delle linee guida delle comunicazione emanate dal Mibact?
In generale, occupandomi soprattutto di accessibilità cognitiva mi interessa il tema della comunicazione, nella consapevolezza che tutto comunica secondo processi che dovrebbero essere intesi come bidirezionali. Il visitatore può ascoltare il museo solo se vale il reciproco.
La ricerca che porto avanti è focalizzata sui temi della comprensibilità e parimenti della trasparenza e, in questo senso, le didascalie ne sono un chiaro esempio. Se il museo vuole porsi come luogo autorevole (ma non autoritario) deve innanzitutto prendere coscienza delle proprie chiavi interpretative, interrogarsi rispetto alle stesse e restituirle secondo approcci differenziati ma che non esasperano la fatica in un affastellarsi di distrazioni, ad esempio.
Ho letto attentamente le linee guida del Ministero e ne ho riconosciuto chiaramente l’influenza (corretta) di un approccio anglosassone rigoroso. Se i musei scegliessero di adottare, criticamente, anche solo la metà delle indicazioni che ne emergono avremmo ottenuto già un ottimo risultato. Credo non si sarebbe potuto scrivere di più perché nella mia percezione scontiamo l’arretratezza diffusa di una concezione museale ancorata al passato. Occorre letteralmente accompagnare le istituzioni verso pratiche nuove ma senza farle sentire smarrite. E quindi, in generale, penso che per i destinatari della pubblicazione (la prima italiana, del resto, sul tema) sia un buon riferimento.

Il pubblico è davvero attivo e partecipativo? Non rischiamo la logica del edu/entertainment?
E’ una domanda complessa e utile: credo che se da un lato alcune fasce sono diventate più esigenti, consapevoli, altre vivono un processo che ne altera i tempi di attenzione che vanno progressivamente accorciandosi. In questo senso però penso anche che fra le potenzialità educative del museo ci possa essere anche l’educazione alla tenuta dell’attenzione durante la fruizione: è un esercizio magari faticosa che conduce alla soddisfazione dell’apprendimento. Ma credo debba essere come un progressivo avvicinarsi alla montagna: con alcuni pubblici occorre procedere per gradi, considerando comunque valido il presupposto che possa non piacere a tutti e che ognuno, da quell’esperienza calibrata sulle risorse personali, possa trarre senso e soddisfazioni propri e diversi. La partecipazione è un chiave che mira soprattutto all’ascolto ma che deve attenersi a strategie rigorose onde evitare (come per il tema dell’empatia) derive, appunto, di tipo retorico. In generale ritengo si debba accompagnare la motivazione, ragionare sul ritmo, sugli stili e le modalità di apprendimento qui inteso non solo di saperi ma anche di competenze, valori, supporto al cambiamento personale e alla motivazione; concepire le strategie a più livelli, insomma, senza comunque negare la validità, ad esempio, della visita guidata classica e di approfondimento.

La tecnologia è davvero la nuova maniera di fruire?
La chiave possibile è tentare, anche in questo caso, di ammettere le contraddizioni, scardinando i pregiudizi. Ad un livello zero, l’esperienza necessaria è forse solo quella di fruizione dal vivo. Su tutto, credo, sia lecito sperimentare il dubbio del fallimento o dell’efficacia ma sempre partendo dallo studio approfondito delle esperienze che ci hanno preceduto. La tecnologia è in primis una risorsa: per l’accessibilità ma anche come strumento comunicativo per il coinvolgimento di alcuni pubblici. Proprio perché veicola dei rischi (qualora malamente sperimentata) rappresenta una sfida a maggior ragione interessante da intraprendere. E’ comunque l’opportunità, anche in questo caso, di differenziare le strategie di apprendimento in senso lato, nella definizione degli scopi che intendiamo raggiungere. E’ un’ulteriore strada per colmare la distanza fra il visitatore e l’opera assumendo quel concetto, proprio anche della disabilità secondo il modello sociale, per cui la responsabilità alla non frequentazione non è un problema del singolo ma un tema di condivisione di cui noi museali ci dovremmo fare carico.

Perché le didascalie sono un tema di discussione?
Le didascalie sono innanzitutto una metafora del dialogo che i musei intendono instaurare con i propri visitatori. Sono la voce del museo che non sempre è pienamente consapevole dei propri toni. Dovrebbero saper guidare lo sguardo, saper parlare a più persone, porsi su quello stesso piano di complessità. Sperimentare modelli differenziati (cosa che in Italia accade raramente) offrendo l’opportunità ai visitatori di acquisire competenze trasversali, e dunque anche critiche, che ci consentano di interrogarci su un contesto e anche sulla possibile loro messa in discussione.

Cosa hai voluto condividere con la proposta formativa del corso Senza titolo?
Il corso Senza titolo nasce innanzitutto dalla necessità di ragionare in modo articolato su di un tema in Italia poco approfondito. Dal bisogno fortissimo di concepire i processi di formazione in modo nuovo, complesso, attivo, capace di contraddirsi senza offrire soluzioni date. Fra le altre, inoltre, nasce dall’esigenza di scardinare lo stereotipo delle gerarchie museali: dal domandarsi, per esempio, a chi spetta l’autorità al museo di definire le didascalie? Ragionare dunque in una chiave democratica che ponga sullo stesso livello professionisti diversi: dal curatore, all’educatore, al responsabile dell’accessibilità al grafico. Ed infine dalla volontà di spingere verso la definizione di nuovi modelli culturali: proposte che possono nascere dalla progettazione di una libreria indipendente e coltissima che ragiona proprio sui nessi fra parola e immagine (come Spazio bk** a Milano), dal coinvolgimento di uno spazio di co-working (Spazio A), un museo di arte contemporanea (PirelliHangar Bicocca) e professionisti diversi, noti e meno noti ma, a prescindere, fortemente competenti. L’ambizione, dunque, è stata quella di mescolare formale e informale, realtà piccole e istituzioni internazionali in una proposta polifonica capace di offrire competenze alte ma soprattutto critiche.

E infine.. come è messa l'Italia?
Dico spesso, continuando a crederci, che siamo nel posto giusto al momento giusto: c’è moltissimo lavoro da fare. E non mi riferisco solo a me o ai colleghi che ci occupiamo più strettamente di questi temi ma, soprattutto, a tutti coloro che lavorano nel solco di un museo in crisi e dunque, paradossalmente, orientato al cambiamento. Oltre ai colleghi capaci con cui mi confronto più da vicino (e cito, dimenticandone moltissimi, Anna Chiara Cimoli, Maria Elena Colombo, Paola Rampoldi, Valeria Bottalico, Elonora Moro, Emmanuele Curti, Cristina Alga, Alessandra Gariboldi, Ciccio Mannino e tanti altri) esiste un contesto critico che non smette di interrogarsi su come avvicinare le ambizioni della teoria alla pratica. L’accessibilità museale segue le stesse sorti. Un elemento di interesse è il fatto che da un paio d’anni se ne inizi a parlare con specificità anche in ambito accademico. Certo viviamo una fase di tendenza: l’accessibilità è di moda e questo spinge verso alcune storture ma, oltre a realtà storicamente di rilievo, sono anche in corso diverse sperimentazioni importanti. Vedo insomma movimento e passione e sono certa che tutto questo rappresenti in ogni caso un’opportunità per interrogarci nel profondo, nella definizione di un approccio culturalmente neutro che spero vivamente possa assumere specificità tutte italiane.

Maria Chiara Ciaccheri. Collabora come progettista e formatrice con numerosi enti, istituzioni e musei occupandosi soprattutto di accessibilità e facilitazione dei processi di apprendimento. Affianca a competenze specifiche rivolte al coinvolgimento dei visitatori, una lunga esperienza nei settori dell’inclusione sociale di persone con disabilità cognitiva e della progettazione partecipata. Dopo un master in Learning and Visitor Studies in Museums and Galleries presso l’Università di Leicester (UK), nel 2014 ha vinto un bando per un visiting program negli Stati Uniti per indagare le migliori pratiche nell’ambito dell’accessibilità sensoriale e cognitiva, confrontandosi con quasi un centinaio di musei americani e i rispettivi referenti. Fondatrice del blog Musei senza barriere, porta avanti la sua ricerca indipendente in Italia e all’estero.

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