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Francesco Vezzoli

  • Pubblicato il: 24/05/2013 - 09:59
Rubrica: 
FONDAZIONI E ARTE CONTEMPORANEA
Articolo a cura di: 
Franco Fanelli
Francesco Vezzoli

Con una mostra in tre sedi e scandita da tre diverse inaugurazioni, Francesco Vezzoli (Brescia, 1971) celebra la sua prima retrospettiva. «The Trinity», questo il titolo della rassegna, inizia al MaXXI di Roma dal 29 maggio al 24 novembre, a cura di Anna Mattirolo. In autunno sarà il turno di New York, presso il MoMA PS1 (a cura di Klaus Biesenbach) e poi toccherà al MoCA di Los Angeles (a cura di Alma Ruiz). Abbiamo intervistato l’artista alla vigilia dell’inaugurazione romana.
So che ci sono stati problemi con la fotografia per la copertina di questo numero di «Vernissage». Com’è che preferisce ricorrere a un autoritratto anziché a una fotografia «in borghese»? È curioso che un artista abituato a lavorare sul proprio corpo abbia inibizioni di questo tipo.
Nel passato magari era diverso, ma ultimamente preferisco essere io la persona che produce la propria immagine, è un qualcosa che mi dà molta sicurezza e tutte queste immagini che produco poi diventano anche dei lavori. Però chiariamoci: non è che ho detto alla redazione di «Vernissage» che non volevo farmi fotografare. Ho fatto una richiesta diversa, cioè che venisse utilizzata un’immagine appartenente alla mia opera. Io ritengo che se finisco su una copertina questa riguarda la mia parte pubblica e quindi metto in scena una sorta di piccolo teatro. Ho fatto lo stesso con «Vogue» scegliendo immagini in cui apparivo travestito da Salvador Dalí. Desidero che ci sia una protezione, un filtro, un trucco. Mostrarmi nella mia vulne-rabilità, nella mia «normalità» oggi un po’ mi turba.
A proposito di autoritratti, perché molti tra i più interessanti artisti contemporanei, da Boetti a Grayson Perry, da Yasumasa Morimura a Roberto Cuoghi, da Ontani alla Sherman, da De Dominicis a Vezzoli, hanno lavorato o lavorano sul tema del doppio, dell’alter ego, del mascheramento?
L’avvento prima dei media e poi dei social media ha portato a un’enfasi esponenziale sull’immagine di sé. Penso che gli artisti riflettano su questo tema proprio perché sentono che le persone sono in preda a un narcisismo isterico, incontrollabile, perché evidentemente gli strumenti attraverso i quali comunicano implicano tutti il proprio aspetto fisico, a cominciare dalle foto su Facebook e da Skype. Nel passato c’erano 23 ore al giorno in cui si era «privati» e un’ora in cui si era «pubblici». Adesso il rapporto si è invertito e davvero viene da chiedersi: «Ma allora i bigodini quand’è che posso metterli?».
C’è però la sensazione che le persone stiano perdendo la coscienza della propria autentica individualità e con questa un’identità culturale, politica e ideologica. Non è che questa attenzione ossessiva verso la propria immagine, verso l’apparire, sia un’arma di distrazione di massa utile a far passare cose che un tempo sarebbero state inammissibili, tipo la sostanziale neutralizzazione dell’art. 18?
Io ho capito che per comprendere il mondo non è sempre necessario procedere per letture analitiche. Forse sono più utili letture generazionali. A volte c’è qualcosa che noi non riusciamo a capire proprio perché non apparteniamo a una generazione, non comprendiamo l’estensibilità delle generazioni che sono venute dopo di noi e magari anche alcuni cambiamenti che sono avvenuti in seno alla nostra generazione attraverso persone che noi non conosciamo, non frequentiamo, che non leggono i nostri stessi libri. Il mondo dell’arte al quale io ho ambito di appartenere e che mi ha formato fa capo a persone come Ida Gianelli al Castello di Rivoli o Germano Celant alla Fondazione Prada, quindi a questi schemi di rigore e serietà sia intellettuale sia politica. Ora mi trovo in un mondo che è cambiatissimo e io pensavo di poter analizzare questo cambiamento ma, come avrebbe detto Pirandello, la realtà è sempre più assurda della fiction, quindi la deriva del narcisismo è molto più veloce di quanto avrei potuto sospettare, per cui diciamo che anche il mondo dell’arte o il sistema critico che appartiene al mondo dell’arte forse si trova un po’ spiazzato di fronte a un mondo che appunto va in direzioni un po’ inaspettate. Noi però abbiamo il dovere di cercare di comprendere. Io per esempio ho passato una buona decade a cercare di capire il sistema dei media. Adesso sono molto affascinato dal sistema dei social media, perché mi sembrano il nuovo potere.
Con cui l’arte ha qualcosa a che fare?
L’arte è relazione con il potere. Che si tratti di un grande pittore che ritrae la regina o di un artista che fa un ritratto all’attrice più famosa del mondo, sono sempre delle declinazioni di una relazione con il potere.
I social media hanno garantito il successo a Grillo e Casaleggio. Ne ha paura o guarda con favore al M5S?
I miei genitori votavano Pdup, quindi, come dire, una sfumatura sofisticata del comunismo... Che cosa immagina le risponderebbero se lei chiedesse loro, cresciuti con Luciano Magri e Luciana Castellina come punti di riferimento, che cosa pensano di Casaleggio e di Grillo? Potrei dire la stessa cosa, per me, riferendomi al mio percorso artistico: sono cresciuto con in camera i poster di Joseph Beuys e Wolf Vostell! È difficile dare delle risposte, però abbiamo tutti un dovere di cercare di capire.
Torniamo alla mostra. Che cosa si vede nella sezione «Autoritratto» al MaXXI?
Tutte le forme possibili della vanità ironica. Vanità, non vanitas, perché io i teschi proprio non li sopporto. La curatrice Anna Mattirolo ha voluto radunare in questa sezione tutti i lavori fotografici, i ricami e soprattutto le ultime sculture nelle quali, ancora una volta, io rappresento me stesso. Le sculture mi divertono molto, soprattutto in fase di realizzazione. C’è una parte ottenuta con un frammento antico, con cui mi relaziono. Mi diverte molto questo sovvertimento dei valori, l’idea che alla base dell’opera c’è anche un percorso di ricerca del reperto antico, c’è la sua acquisizione. Per me sono oggetti che dovrebbero valere molto di più di un’opera d’arte contemporanea e invece spesso costano molto meno della più insignificante opera di un trentenne proposto da una altrettanto insignificante galleria, e quindi mi piace questo gioco. Altre volte mescolo le epoche: in «Antinoo e Adriano» la figura dell’imperatore è un autentico frammento antico, men-tre Antinoo è del XVIII secolo.
Dica la verità: l’idea le è venuta guardando i turisti in posa con i tableaux vivants davanti a certi musei, quei pannelli in cui infilando la testa in una foto si diventa protagonisti delle «Meninas» o della «Ronda di Notte»...
Sì sì, l’idea di quella roba lì con il buco per me è proprio un’ossessione. A me sembra che tutti i miei lavori siano un po’ un buco dove infilo la testa, nel senso che anche le mie presenze nei video sono sempre incongrue.
Il suo Antico è spesso filtrato o romanzato, come in un kolossal hollywoodiano: penso al «Caligola» di Gore Vidal, o ai suoi riferimenti a Gérôme...
Quando mi è stato chiesto di esporre «Antinoo e Adriano» nelle rovine di Villa Adriana a Tivoli mi sono imbattuto in un testo di Ranuccio Bianchi Baldinelli, Antico non antico, dove si parla della rielaborazione, del riassemblaggio della statuaria antica. Da un punto di vista formale, mi affascina questa idea che il passato possa essere rielaborato. Però a me piace sempre molto quella frase di Gore Vidal all’inizio di «Caligola»: «Every moment in history is dark». Se tu hai letto quando avevi 14 anni, magari non perché ne avevi voglia ma per obbligo, il Satyricon o Catullo, capisci che inventare qualcosa di veramente nuovo è impossibile... Nella villa di Oplontis c’è una galleria con degli affreschi geometrici che sembrano dei Sol LeWitt! Quindi ogni momento della storia del potere è «dark» e ogni momento della storia dell’arte è colorato. Insomma, tutto è stato detto.
Può parlare dell’allestimento al MaXXI?
Gli spazi di Zaha Hadid che molti hanno criticato invece a me piacciono moltissimo, penso che abbiano un’identità forte. Il testo di Anna Mattirolo che accompagna la mostra tratta del rapporto tra artista e museo, l’istituzione che più rappresenta il potere o l’autorità intellettuale, al pari di certe gallerie. Quindi come a me è piaciuto trasformare la galleria di Gagosian in una profumeria e trasformare il Guggenheim in un teatro, questa volta riempio lo spazio di Zaha Hadid con damaschi e velluti, il che crea un bel contrasto con l’architettura del museo, che è futurista e futuribile.
La emoziona sapere che siamo nel 150mo anniversario della nascita di D’Annunzio?
Sono affascinato da D’Annunzio, dal suo rapporto con il potere, dal la delusione che lui ne ricava alla fine. Lui aderisce al Fascismo dalla prima ora ma poi ne viene completamente tradito. Lui sperava che i suoi rapporti con il potere gli garantissero una carriera artistica più duratura e gloriosa ma in realtà questo non avverrà. Mi affascina anche il suo rapporto con il divismo, con la Duse. E poi la sua identità erotica è già mediatica, nel senso che concepire grandi amori solo con delle grandi attrici è già un costruire una dimensione pubblica del proprio desiderio e anche in questo lo trovo un personaggio anticipatore, proprio nel suo avere costruito un brand per se stesso. Certo, diciamo che essere dannunziani 24 ore al giorno è terribile!
E lei non lo è.
Io penso che ci sia un Francesco Vezzoli artista e un Francesco Vezzoli persona che sono la stessa persona. Penso che il sistema dell’arte abbia attraversato un tale cambiamento e una tale rivoluzione per cui, ora che il sistema dell’arte è diventato un’industria, agli artisti viene richiesta una quantità di visibilità e di partecipazione alla vita pubblica che è letteralmente al di sopra delle mie capacità umane. Se negli anni Ottanta ho sognato di diventare un artista famoso, negli anni Duemila spero di diventare un artista invisibile.
Perché ha scandito questa mostra in tre sedi così lontane e diverse?
È un mio desiderio di mettere in scena un «da Brescia fino a Hollywood e ritorno»! Anche geograficamente Roma è il posto dove ho girato tutti i miei primi video, che erano anche un omaggio alla storia del cinema italiano. New York è il luogo dove sono andato a vivere; Los Angeles è la città dove sono andato a vivere dopo New York. Per cui la mostra è proprio uno specchio del mio percorso; ed è anche un tentativo di buttarmi alle spalle proprio tutto quello che ho fatto senza nemmeno «editarlo» troppo. È un buttare tutto dietro per guardare in avanti. Come dice Beyoncé in uno spot della Pepsi, «abbraccio il mio passato ma vorrei anche buttarlo tutto via»: ecco, questo è lo slogan della mia retrospettiva schizofrenica.
A New York farà ricostruire una chiesa cattolica sconsacrata. Che cosa vuol dire?
Con New York il rapporto è sempre molto conflittuale, quindi diciamo che in quel luogo più si rendono manifeste le proprie radici e meglio è. Quella è la città che intellettualmente ha ancora l’impatto più violento, nel senso buono della parola. New York è una spia intellettuale talmente significativa per l’ultimo secolo che ti senti svenire se pensi a tutto quello che è nato lì, ma mica solo nell’arte, anche nella musica, nella letteratura ecc. Quindi mi porto da casa le mie radici, in questo caso una chiesa, e ci metto dentro tutti i miei video e magari ci metto dentro anche mia mamma viva... È come dire: «Così non mi fate del male».
New York è uno dei centri di potere anche nell’arte. Quali sono oggi i soggetti che lo detengono?
Negli anni Settanta non esistevano veri e propri musei di arte contempo-ranea, quindi il potere, per quanto improvvisato, era nelle mani dei galleristi per il loro ruolo pionieristico. Poi negli anni ’80 sono nati i primi veri e propri musei di arte contemporanea, poi le Kunsthalle, poi ne sono nati pure troppi, e però diciamo che negli anni Novanta e 2000, diciamo per tutti i Novanta e i primi 2000 c’è stata una legittima egemonia dei musei, cioè un artista ambiva ad avere una grande mostra in museo. Mi sembra che l’egemonia sia nuovamente dei galleristi e io questo lo accetto, però trovo che a questo punto, essendosi chiuso il cerchio, gli artisti dovrebbero rompere questa loro egemonia. Soltanto gli artisti possono farlo. Io, ad esempio, vorrei farmi dare un prestito da una banca, dare fondo a tutte le mie finanze, andare dall’assessore alla Cultura di Milano e dirgli di darmi il Pac. Io ci metto, in cambio, tutti i soldi necessari per
farlo andare avanti, diciamo per due anni. Ma io voglio il Pac come presidente, non in un ruolo intellettuale ma amministrativo. In questa veste io, artista, nomino il direttore del Pac. Se le strutture pubbliche languono sarebbe una provocazione molto interessante che gli artisti si facessero avanti e se le ricomprassero. Come provocazione, ovviamente, anche per smuovere un po’ questo sistema che altrimenti è fermo a un funzionamento molto ovvio. Un sistema nel quale i galleristi che hanno, giustamente, un potere enorme perché investono, detengono un’in discutibile egemonia.
Scusi, ma non mi pare manchino, seppur non così numerosi, artisti che il potere di cui lei sta parlando lo detengono e lo esercitano.
Ci sono alcuni artisti che detengono un potere contrattuale e finanziario enorme? Bene, io inviterei questi artisti, e vorrei essere io per primo a farlo appena ne avrò i mezzi, a farsi avanti con gli enti pubblici, perché il mondo è pieno di musei che non hanno più una lira e gli artisti, visto che da questi musei hanno ricevuto una benedizione al loro sistema di pensiero, «restituiscono» e si fanno avanti per aiutare queste istituzioni a continuare a vivere, ma in una maniera pratica, cioè non donando un’opera per un’asta, ma prendendosi un impegno e una responsabilità. Secondo me sarebbe molto divertente.
Perché ha sostanzialmente interrotto la fortunata serie di video con le attrici celebri?
Le dico la verità: non mi batteva più il cuore. All’inizio, quando incontravo queste celebrity il cuore mi batteva eccome, proprio per il loro status, la loro importanza, la loro bravura. Quando mi sono reso conto che in questo lavoro cominciava a esserci meno autenticità, proprio come può avvenire in un rapporto erotico, ho interrotto la serie. Forse giusto se incontrassi Angelina Jolie mi batterebbe ancora il cuore, ma solo perché m’inquieterebbe vederla insieme a Mario Monti od Obama. Quindi non mi sta più battendo il cuore per l’attrice, mi batte il cuore per un’attrice che è talmente indiavolata che vuole diventare presidentessa, come nella mia opera «Democrazy».
Il cinema, come ovvio, sarà il tema della puntata californiana della mostra. Che cosa si vedrà al MoCA di Los Angeles?
Tutti i miei video, però un terzo della mostra sarà occupata dai «Comizi di non amore», che è il lavoro fatto per la Fondazione Prada circa 10 anni fa proprio sul tema dei media, su come questi manipolano le relazioni personali, interpersonali, le scelte amorose ecc. In quell’opera ricreavo un reality show con Catherine Deneuve, Jeanne Moreau e altre attrici che giocavano un po’ a una puntata di «Uomini e donne». La curatrice in quest’opera individua una svolta un po’ politica nel mio modo di lavorare.
Qual è l’ultimo film che ha visto?
Ho rivisto «Testimone d’accusa» di Billy Wilder che è un capolavoro assoluto per me.
Ma lei al cinema ci va?
Certo. Ieri sono andato a vedere «Il volto di un’altra», il film di Pappi Corsicato sulla chirurgia plastica. È come se «Nip/Tuck» (una serie tv americana sulla chirurgia plastica, Ndr) incontrasse il melodramma anni Trenta.
Non le è piaciuto?
Tutt’altro. L’ho trovato un film folle e coraggioso.
La spaventa il termine «retrospettiva»?
Non lo sopporto.
Ma a quarantadue anni le tocca...
In inglese suona ancora peggio: «mid-career retrospective»... Sono un ar-tista mid-career, middle-aged, ma se mi si dice che sono un uomo di mezza età corro subito in clinica!
Quindi è per questo che ha fatto tante storie per la copertina...
No, non è per questo.
Però la spaventa un po’ il fatto di non essere più un enfant prodige.
Ho più paura dell’invecchiamento fisico che di quello intellettuale. Guardi, chiudiamola così: adesso Greta Garbo sono io!


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Il reportage completo è pubblicato nel numero di «Vernissage» in edicola

da Il Giornale dell'Arte numero 331, maggio 2013