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Fondi Europei. Questi sconosciuti

  • Pubblicato il: 16/02/2015 - 15:52
Autore/i: 
Rubrica: 
VOCI DALL'EUROPA
Articolo a cura di: 
Andrea Archinà

La programmazione comunitaria 2014-2020 è in corso. Ma siamo pronti per cogliere una sfida di Fondi Strutturali che mette al centro coesione, competenza e pertinenza strategica?
Ne parliamo con Francesco Milella, un'esperienza trentennale nelle politiche di sviluppo locale attraverso l'assistenza tecnica alla programmazione dei fondi strutturali per amministrazioni centrali, regionali e locali, Puglia in primis, dal coordinamento dell'assistenza tecnica sulle dieci aree vaste per la pianificazione strategica, ai progetti di politiche giovanili che hanno portato alla nascita di 156 laboratori urbani, un'esperienza unica in tutto il continente premiata dalla Commissione Europea come best practice. Partecipa al gruppo di lavoro del MIBACT per la elaborazione delle nuove linee guida per la valorizzazione integrata dei Beni Culturali come esperto di Fondi Strutturali. Nel corso della sua esperienza professionale ha sempre ritenuto centrale il nesso Cultura/Innovazione nelle politiche di sviluppo territoriale.
 
 
In quanto a Fondi europei l'Italia ha una storia fatta di affanni, di difficoltà, talvolta di ambiguità e di declaratorie tecniche che mutano di ciclo in ciclo e, purtroppo, di restituzioni di fondi. Quali sono i termini della questione?

E’ presto detto. Certamente il nostro Paese non brilla per la capacità di valorizzare gli stanziamenti dei Fondi Strutturali Europei: si presenta[1] al quart’ultimo posto, tra gli Stati membri dell’Unione Europea, in termini di efficienza della spesa programmata dai Fondi SIE[2] per il cicco di programmazione 2007-2013, più o meno alla pari con la Grecia e subito sopra la Bulgaria e la Romania. Questo significa un tasso effettivo di spesa pari a circa il 46% di quanto programmato nel periodo, inferiore quindi alla metà di quanto era possibile utilizzare. Non è andata meglio nei cicli precedenti di programmazione, anzi, si può affermare che si siano fatti significativi passi avanti. Resta il fatto che ad oggi, al netto dei cofinanziamenti nazionali e regionali, restano da spendere entro il periodo giugno/dicembre 2015 circa 14 miliardi di euro.  
Il problema è all’ordine del giorno e francamente su di esso si innescano anche interpretazioni surrettizie più fondate su logiche di ricentralizzazione nella programmazione della spesa comunitaria (Ministeri vs. Regioni) che su un quadro coeso di iniziative che prendano il «toro per le corna».
Per dare un'idea del fenomeno basta pensare che, a seguito dei ritardi accumulati dalle amministrazioni regionali nell'utilizzo dei fondi della programmazione 2007 – 2013, nel novembre 2011 il «Piano di Azione Coesione» (PAC) concertato tra l'ex-ministro Fabrizio Barca con la Commissione Europea, ha scongiurato il rischio del disimpegno automatico di risorse comunitarie, introducendo una ferrea tabella di marcia per le Regioni e concentrandosi sulle Regioni dell'Obiettivo Convergenza (Calabria, Campania, Puglia e Sicilia, Basilicata in regime transitorio). Qui, la quota di cofinanziamento comunitario è quindi passata dal 50% previsto ad un massimo del 75% in virtù degli effetti della crisi. Il PAC è stato finalizzato a grandi opere di valore strategico. Attraverso il PAC, ad esempio, si è puntato sulla valorizzazione di 20 poli culturali ad alto potenziale di attrazione, con interventi pari a circa 330 milioni di euro. Di questi però meno della metà sono andati in linea con lo stanziamento dei fondi. Si pensi al «progetto strategico Pompei» che langue. Contestualmente si è assistito ad una ricentralizzazione di altri fondi con il presupposto che le amministrazioni centrali dello Stato fossero più capaci delle nostre Regioni a spenderli. A ben vedere vi è un'incapacità di entrambe, anzi i programmi operativi di tipo nazionale (PON) sono spesso meno efficienti.
 
 
Da cosa dipende l’incapacità di spesa?
Fondamentalmente da tre elementi. Il primo è l’incertezza strategica. Ogni volta che si redigono i programmi nazionali per l’attivazione dei cicli di programmazione dei fondi strutturali si declinano una quantità di azioni e linee di intervento, che destrutturano il valore strategico degli impianti programmatori e frammentano in mille rivoli; il tutto in barba a qualsiasi principio di concertazione strategica, di comparazione della struttura dei risultati attesi e degli obiettivi rilevanti per lo sviluppo nazionale e regionale. Insomma, la classe dirigente, di qualsiasi estrazione essa sia, deve imparare a fare delle scelte.  
A valle della mancata scelta, c’è poi l’impianto, quasi onirico sotto il profilo organizzativo, delle Autorità di Gestione, cioè di chi ha la responsabilità dell’attuazione dei programmi, siano esse Amministrazioni centrali (PON) che regionali (POR). A cascata di obiettivi tematici, linee di intervento, azioni, si frammenta il principio di responsabilità tecnico-amministrativa, procedurale e finanziario, al punto tale da avere una struttura piramidale complessa, composta da responsabili per obbiettivo tematico, di dirigenti di servizio afferenti, dai responsabili di azione e dalle posizioni organizzative responsabili per le sotto-azioni. Questo elude alla radice la necessità di avere strategie operative integrate tra obiettivi e azioni operative. È complicato, ad esempio, trattare un’azione di valorizzazione ambientale di un Parco naturale programmando le azioni sui beni culturali che vi sono compresi e sostenendo il tessuto produttivo ed economico locale lì insediato come sarebbe semplicemente logico. E’ certo quindi che l’incremento di oneri amministrativi sia tale da costringere a moltiplicare le procedure di accesso ai fondi strutturali con scarsi risultati, sia in termini di efficienza che di efficacia e rilevanza strategica
Un terzo motivo è la diffusa scarsa qualità dei progetti che emergono dai territori, spesso più legati a logiche opportunistiche di acquisizione di fondi purchèssia che alla qualità degli obiettivi e delle azioni da mettere in campo. Da tempo mi batto perché le attività di assistenza tecnica siano più concentrate sull’accompagnamento ai beneficiari finali, come i Comuni che candidano progetti sui vari bandi, infragiliti da scarsi innesti di competenze avanzate e dal fiato sul collo della spending rewiew, che alle stesse Regioni dove spesso si supplisce a carenze strutturali di personale qualificato ma anche si spaccia per assistenza tecnica un lavoro molto meno nobile di “manovalanza” amministrativa data la onerosità delle discipline e della normativa nazionale che si applica inevitabilmente sulle procedure di accesso ai fondi.
 
 
Parliamo della procedura sugli appalti?

Si anche. La nostra disciplina degli appalti e dei contratti pubblici è tra le più complesse in Europa, molto ispirata a logiche di controllo e di legittimità piuttosto che di efficienza, efficacia e attenzione al risultato. E’ preoccupante che essa si innescti su logiche da Codice napoleonico, dove si moltiplicano i centri di responsabilità e di competenza e prevale l’aspetto dell’adempimento formale rispetto alla natura delle questioni e alla collaborazione per individuare soluzioni agibili. Il risultato è che non solo il controllo assume rilevanza formale (si sa come spesso va a finire…) e ci costringe, ad esempio, a tempi di completamento di opere infrastrutturali che vanno dai cinque ai sei anni per opere di valore inferiore ai 5 milioni di euro.
Il DPS[3] ha azionato un cruscotto temporale delle opere pubbliche[4] con cui si rappresenta il tempo di realizzazione degli investimenti pubblici in Italia e a conti fatti, poiché i cicli di programmazione durano un settennio, occorrerebbe avere già progetti ad alto tasso di cantierabilità all’inizio dei cicli di programmazione dei Fondi Strutturali e di Investimento Europei (SIE) per essere all’altezza della velocità di spesa necessaria. Tra la difficoltà di scegliere e avere già “il nome ed il cognome” dei progetti finanziabili c’è molta distanza.
Queste condizioni di difficoltà in un periodo così complicato dagli effetti della crisi, producono effetti devastanti e, appunto per la crisi, l’Italia non può proprio permettersi di sottovalutare il rischio di mancata spesa dei Fondi SIE posti non solo alla base del processo di integrazione europea e delle politiche di Coesione, ma sempre più rilevanti per gli investimenti pubblici tout court nel ns. Paese.

Nel senso che i fondi strutturali suppliscono alla difficoltà di programmare investimenti pubblici con risorse nazionali?
Gli effetti della crisi si sentono in tutti gli Stati membri dell’Unione. I Fondi SIE, nel corso degli ultimi anni, dal 2007 a oggi, hanno aumentato dappertutto il loro impatto nel concorso agli investimenti pubblici europei. Nel 2007 rappresentavano il 2,1,% del valore complessivo degli investimenti pubblici in Europa, nel 2013 i Fondi SIE ne costiuiscono il 18,1%[5] . Nel nostro Paese, dove tra il 2005 e il 2014, sono diminuiti del 45% gli investimenti pubblici è salita la quota di incidenza dei fondi europei attestandosi al 45% tra fondi strutturali, fondi di cofinanziamento e Fondo di Sciluppo e coesione. Di fatto è cambiato il livello di consistenza ed incidenza dei fondi strutturali che da una proiezione di sviluppo hanno progressivamente sostituito le politiche ordinarie degli Stati membri. Non si potrebbe fare ma è così.

Il ciclo di programmazione dei Fondi Strutturali 2014-2020, con le risorse nazionali del Fondo Sviluppo e Coesione (FSC) e le risorse ordinarie dello Stato, costituiscono quindi la piattaforma finanziaria di orientamento strategico delle politiche pubbliche di crescita, sviluppo e coesione, nazionale e regionale dell’Italia?
Si, certo. Ne costituiscono una componente importante, decisiva. E’ un montante ingente di risorse che deve essere speso bene e rapidamente.
Parliamo di circa 43 miliardi di euro di fonte comunitaria, di oltre 20 di cofinanziamento, di 55 di FSC, a cui dovremmo aggiungerne 28 circa di FSC 2007-2013 e 14 di Fondi SIE dello stesso periodo ancora da spendere. Poi ci sono ancora 5 Miliardi di euro di PAC 2007-2013. In tutto fanno circa 162 miliardi di euro. Una cifra imponente.
 

Come nasce il ciclo 2014 -2020 dei fondi SIE?
Determinati gli indirizzi della Commissione Europea, ogni Paese produce il suo quadro strategico nazionale. Il tutto si esplica attraverso “l'Accordo di Partenariato” un documento d’indirizzo molto importante nel quale ogni Paese spiega quali sono gli obbiettivi che ritiene particolarmente qualificanti per tradurre la politica di Coesione europea nella propria politica nazionale. Sulla base di questo documento, ogni Regione realizza i cosiddetti Programmi Operativi (POR), traducendo le indicazioni comunitarie e specificando gli obiettivi da raggiungere a livello ancora più dettagliato. Nell’Accordo si definiscono gli obbiettivi generali e tematici, risultati attesi, azioni e risorse aggiuntive in direzione degli obbiettivi della politica di Coesione europea prefigurati dalla Strategia di Lisbona, come aggiornata in Europa 2020.
Si tratta di obbiettivi ambiziosi volti a costruire una crescita, intelligente, sostenibile ed che trovano nell’Accordo una proposta definita ed una cornice strategica e programmatica d’azione. Il nostro Accordo di partenariato è stato approvato dalla Commissione Europea il 3 novembre scorso[6]. Per Giugno dovrebbero essere predisposti ed approvati i POR ed i PON.
Proprio nella consapevolezza delle condizioni critiche con cui il nostro Paese affronta la partita dei Fondi SIE il ministro Barca intervenne preventivamente con decisione con un documento in cui venivano indicate le sette innovazioni di metodo necessarie per non fallire.[7] Ma a conti fatti temo che la spinta data dall'ex ministro abbia dato solo uno scossone e che i ritardi si stiano già accumulando.
 
 
E la Cultura che ruolo gioca negli assetti della programmazione 2014-2020?
L'impressione è che la cultura acquisisca una connotazione maggiormente trasversale tanto da essere costretti a ricercarla in altri obiettivi tematici oltre che nell' Obbiettivo tematico (OT) 6[8]. E’ più facile incontrare valori culturali negli interventi legati all’obbiettivo tematico 1 sull’innovazione e sulle politiche urbane Smartcity, onell’OT3 per i regimi di aiuto alle imprese creative. L’OT 6, oltre a contenere solo 4 azioni riferite all’ambito culturale, segnando scarsa centralità della Cultura nelle strategie di sviluppo nazionale, disperde il valore di alcune esperienze pilota a carattere strategico pure in corso sul ciclo di programmazione 2007-2013 che puntavano al valore integrato della Cultura nelle strategie territoriali di sviluppo. Penso ai Sistemi Ambientali e Culturali in Puglia, o ai Distretti Culturali Evoluti nelle Marche, dove si manifesta con chiarezza che non è mai il singolo intervento puntuale di recupero di un bene culturale a innescare processi di sviluppo, ma la capacità di attivare processi di valorizzazione integrata ed attivare le comunità territoriali innescando servizi innovativi e nuove economie. Ciò nonostante, sarebbe importante continuare a dare uno sguardo a carattere integrato di reti di beni, sia materiali, ambientali, paesaggistici e culturali sia di pratiche immateriali che consentano di fare sviluppo vero, sostenibile e di qualità.
La predisposizione dei PON (tra cui il PON Cultura) e dei POR deve provare, con semplicità, a ricostituire centralità e nesso tra Cultura ed Innovazione, nella logica di una strategia riformatrice e modernizzatrice del Paese, che faccia della Cultura una leva competitiva (intesa non solo sotto il profilo economico dei suoi effetti diretti) per riguadagnare ruolo internazionale e qualità della vita delle popolazioni e delle comunità territoriali. In verità la Cultura, nell’Accordo di partenariato, è ancora declinata in una visione economicista ed ancillare allo sviluppo dei Polti turistici nazionali e regionali, segnando, temo, uno sguardo un po’ retrò e superficiale. Lo stesso Accordo in verità fa anche riferimento alle industrie culturali e creative e segnala che “circa la metà delle Regioni italiane, nell’ambito del processo di definizione delle priorità per la Smart Specialisation Strategy si sta orientando verso l’individuazione dei beni culturali e del turismo come nicchie ad alto potenziale innovativo, Il dato è rilevante perché registra un approccio nuovo alle politiche culturali e turistiche e individua nel patrimonio culturale un driver di sviluppo per il territorio, grazie anche alla promozione, nelle aree di attrazione, di reti di imprese operanti nelle filiere culturali, creative e dello spettacolo, con imprese operanti nei settori produttivi tradizionali (OT 3).
 

Vanno in questa direzione le opportunità di Europa Creativa?
Europa creativa si concentra sulle cosiddette industrie creative. Dal mio punto di vista, per quanto banale, sono creative le imprese in grado di soddisfare bisogni non ancora espressi in termini di domanda dal mercato esistente. Alla base del concetto di creatività imprenditoriale c'è la capacità di costruire elementi di innovazione nel rispetto di logiche di mercato. Ma il livello tassonomico dell’Unione europea non parla di imprese creative ma di industrìe creative. L'industria creativa viene così eletta a sistema di classificazione di tipologie di attività anche differenti tra loro, ma tutte caratterizzate sotto il profilo del prodotto industriale che dalla qualità generativa di innovazione basata sulla Conoscenza e sulla Cultura. E così dalle app per smartphone, all’audiovisivo, si fa riferimento alle filiere di produzione “creativa”. Sicuramente nei paesi anglosassoni e nel nord Europa, esistono logiche di concentrazione “industriale” di questo tipo di esperienze.
Europa Creativa è probabilmente un programma costruito più per rafforzare questo tipo di filiere che in Italia, seppur con alcune eccezioni, restano alquanto fragili per quanto in evoluzione positiva. Europa creativa non affronta, se non collateralmente, invece il tema delle attività culturali, quelle in cui il valore di sviluppo è spesso per natura legato agli effetti positivi di contesto piuttosto che al tasso di crescita della propria redditività e del posizionamento sul mercato. Sicuramente non intercetta il tema dell'innovazione sociale e culturale che invece è un tema caratterizzante del nostro Paese dove agiscono casi di eccellenza internazionale anche a basso profilo imprenditoriale e che operano in supplenza, spesso, dell’azione pubblica nella costruzione di comunità urbane e o territoriali ricche di identità competitiva.
 

Quale può essere un approccio corretto alla Cultura, come driver di sviluppo, contribuendo ad un utilizzo efficace ed efficiente degli stanziamenti comunitari?
Innanzitutto modificare l'approccio ideologico con il quale ci si avvicina alla Cultura.
Come già detto esiste una forma ancora fortemente economicista di declinare il valore della cultura come connesso direttamente, se non in via esclusiva, al turismo, quando invece, evidentemente, la cultura rende la vita più facile e costruisce i principi identitari di territori e comunità e consente di rispondere meglio anche alle condizioni della crisi. Tutto ciò è ancor più vero se c’è capacità di individuare i tratti caratteristici dei valori della propria comunità. E' intorno alla presenza di beni culturali valorizzati e pratiche immateriali che si costruisce una comunità e la sua resilienza agli sconvolgenti cambiamenti di questa nostra epoca. Questo è un principio generale, che non viene riconosciuto apertamente del ciclo 2014/20 e di cui non possiamo che sentirci tra i principali responsabili, in considerazione della più ampia diffusione e presenza di patrimonio culturale materiale ed immateriale in Europa.
La scommessa vera, e questo chiede un cambio di rotta anche a chi opera nella Cultura, è che chi ha voglia di rimboccarsi le maniche e vuole agire sulle proprie aree territoriali, deve essere in grado di individuare un profilo di obbiettivi quantificabili, e ne trovi la collocazione all’interno dei circuiti di programmazione. Questo significa anche imparare a conoscere l'impianto dei fondi strutturali ed essere in grado di avanzare proposte senza attendere che la propria Regione o una qualche amministrazione centrale dello Stato faccia un bando. Alla base devono esserci un sistema di attori in grado di garantire processi di governance, anche su progetti semplici, ma realmente sostenibili, in grado di traghettare il proprio territorio da una situazione di fragilità a un innesco di reale sviluppo. Per fare tutto questo bisogna azionare ciò che più di prezioso abbiamo: i beni pubblici, le capacità e la creatività delle persone e soprattutto essere attenti al sistema di decisioni che vengono prese nella predisposizione dei programmi partecipando ai tavoli di partenariato. Una buona chance può essere riposta nella declinazione del Progetto strategico «Aree Interne»[9], quelle che spesso possiedono gli aspetti di maggiore fragilità espressa, ma che possiedono valori culturali «sottutilizzati» che possono essere potenziali di sviluppo laddove vengano riconosciuti quali asset strategici.
 
 
In sintesi, abbiano chance per un corretto utilizzo dei Fondi Strutturali?
La fase di transizione dell'architettura istituzionale in corso di attuazione nel nostro paese determina incertezze aggiuntive che si sommano, sino a che non sarà chiusa questa fase, alle storiche difficoltà italiane, rispetto alla capacità di stare nei “tempi” segnati dalla programmazione europea. Non sto difendendo architetture istituzionali del passato o diverse. Certo, in questa fase chiudono musei provinciali, come conseguenza della transizione alla chiusura delle Province e i luoghi della Cultura e le istituzioni culturali non se la passano benissimo. Ho già detto dell’approccio che ha fatto prevalere sino ad oggi la filosofia dei numerosi centri di responsabilità dello sviluppo piuttosto che il merito delle questioni e la sensibilità alla collaborazione nel costruire cose credibili. Quindi c’è poco da “difendere”. L’istituzione dell’Agenzia per la Coesione Territoriale[10], è troppo recente per stabilire se possa costituire uno strumento efficace nel governo dei Fondi SIE. Anche se temo che corrisponda più al filosofie neocentraliste che alla missione dichiarata di migliorare la perfomance della programmazione e attuazione dei Fondi SIE e del Fondo di Sviluppo e Coesione. Si vedrà e speriamo tutti nel meglio.
E’ dunque una fase di incertezza da cui si deve sperare che emergano condizioni, quadri di riferimento operativi e soggetti in grado di contribuire al miglioramento e alla qualità della programmazione dello sviluppo nazionale.
Quello su cui non bisogna essere incerti è la natura e il tipo di strategia da mettere in campo. La strategia non può essere fatta di adempimenti formali, ma, nella sostanza, deve dimostrarsi in grado di risolvere i problemi a monte. E la programmazione deve essere ispirata da coerenza. Coerenza esterna tra i diversi livelli di programmazione e interna, in grado cioè di rispettare i principi di rilevanza strategica, eseguibilità delle azioni, sostenibilità e valutazione dei risultati.
In tre parole chiave? Coesione, competenza e pertinenza strategica. Solo queste potranno fare la differenza.
 
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[1] Sesto rapporto sulla Coesione economica, sociale e territoriale luglio 2014 – Commissione Europea
[2] Fondi Strutturali
[3] Dipartimento per le Politiche di Sviluppo e coesione
[5] Sesto rapporto sulla Coesione economica, sociale e territoriale luglio 2014 – Commissione Europea
[7] Le sette innovazioni generali di metodo proposte da Fabrizio Barca nel documento “ METODI E OBIETTIVI PER UN USO EFFICACE DEI FONDI COMUNITARI 2014-2020”  (dicembre 2012) tendono ad affrontare i problemi consolidati ed emergenti dei passati cicli di programmazione dei fondi strutturali in Italia. In rapida sintesi si tratta di : 1) articolare gli obiettivi della programmazione operativa dei Fondi con la individuazione dei suoi risultati attesi,  identificabili, conseguibil e misurabili; 2)  circostanziare non in modo generico le azioni operative con cui i programmi possono conseguire quei risultati; 3) associare alle azioni una stringente e dimostrabile pianificazione dei Tempi di attuazione e sorvegliarli; 4) garantire la massima trasparenza ed accessibilità alle informazioni sullo stato di attuazione dei programmi non solo agli addetti ai lavori per garantire controllo sociale esteso sulla qualità dell’attuazione; 5) garantire effettività al ruolo del Partenariato economico-sociale, estendendo pratiche di partecipazione ascendenti anche in fase operativa (es. confronto sui bandi che saranno attivati) dei potenziali destinatari oltre i sistemi di rappresentanza ; 6) potenziare e migliorare la qualità della Valutazione d’impatto delle politiche pubbliche e dei programmi operativi; 7) garantire un forte presidio Nazionale dei programmi operativi non con spirito neocentralista ma per garantire fluidità nei processi di attuazione, intervenire prontamente sulle criticità e le inefficienze, anche a fini di riprogrammazione dei fondi non impegnati o non spesi, integrare meglio le politiche ordinarie con quelle sostenute dai Fondi Strutturali
[8] L’OT. tematico n.6 “tutelare l'ambiente e promuovere l'uso efficiente delle risorse” è quello  tra gli undici OT che contiene azioni direttamente orientati all’ambito culuurale.
 
[10] Prevista dall’art 10 della legge 125 del 30 ottobre 2013