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Focus Art4Social. So as to find the strength to see

  • Pubblicato il: 18/05/2018 - 08:01
Rubrica: 
CULTURA E WELFARE
Articolo a cura di: 
Roberto Mastroianni

Dalla collaborazione tra la Fondazione Merz e la Fondazione Sardi per l’arte nasce la prima mostra monografica realizzata in uno spazio museale italiano dell’artista Fatma Bucak dal titolo “Fatma Bucak. So as to find the strength to see” (6 marzo- 20 maggio 2018), un progetto espositivo in parte inedito e sicuramente complesso che si snoda tra interventi site specific e performativi, installazioni, immagini. 
Siamo di fronte a un’esemplare operazione di valorizzazione di una giovane e talentuosa artista e del suo lavoro dal forte impatto sociale da parte di due Fondazioni d’arte che, lavorando in modo sinergico, riescono a perseguire la propria missione unendo risorse economiche e competenze, realizzando in questo modo un’esposizione di grande qualità, capace di colmare alcuni vuoti di proposta culturale prodotti dalla crisi economica, cui è soggetto il sistema museale pubblico italiano.
Nella mostra  prodotta dalla Fondazione Sardi per l’Arte, ospitata negli spazi della Fondazione Merz, Fatma Bucak riunisce tutti gli elementi che caratterizzano la sua ricerca e la sua poetica, indagando in modo raffinato e potente la fragilità esistenziale e le dinamiche socio-politiche, cui sono sottoposti gli umani in questo specifico periodo storico, e le tensioni e i contrasti che danno forma allo spazio pubblico e alla memoria culturale in relazione alle diverse forme del potere politico, religioso ed economico. Nata nel 1984 a Iskenderun, una cittadina nel Sud della Turchia, vicina al confine con la Siria e appartenente alla minoranza curda, l’artista lavora su temi quali l’identità politica e di genere, la memoria e l’oblio, la violenza di Stato, la censura, la repressione delle libertà individuali e collettive, la migrazione, la mitologia religiosa e l’immaginario culturale, nonché sulle forme dell’appartenenza culturale e della costruzione dell’alterità e identità in un mondo globalizzato.


 
L’arte contemporanea è oggi uno dei veicoli principali per l’istituzione di uno spazio pubblico condiviso, attraverso l’elaborazione di simboli e forme capaci di generare e sollecitare riflessione sociale e politica. Gli artisti possono presentarsi come degli enzimi culturali, come soggetti dalla grande sensibilità intellettiva ed emotiva, che indagando i temi della contemporaneità, attraverso la propria ricerca poetica, attivano nel fruitore delle opere un processo positivo di consapevolezza, riflessione e compartecipazione. Il valore pubblico e sociale dell’artista è sempre più evidente, anche quando non esplicitamente politico, a tal punto che gli spazi museali e le Fondazioni pubbliche e private di promozione dell’arte assolvono sempre più il ruolo di grandi contenitori di narrazioni simboliche, finalizzate allo sviluppo del dibattito pubblico e di coscienza collettiva. Questo sembra molto chiaro nel caso di due enti come la Fondazione Merz e la Fondazione Sardi per l’arte, che hanno messo al centro della propria missione la valorizzazione di un patrimonio artistico e archivistico preesistente e, al contempo, l’attività di artisti, studiosi e curatori giovani e meno giovani, il cui lavoro rivesta un importante ruolo di generazione estetica del dibattito pubblico.

La Fondazione Merz ormai da più di un decennio alterna la conservazione e la promozione delle opere di Mario e Marisa Merz con momenti di riflessione e studio con esposizioni e grandi progetti site-specific di artisti nazionali e internazionali, capaci di confrontarsi con lo spazio della Fondazione e con il suo contenuto. Attività similare a quella svolta dalla Fondazione Sardi per l’arte, nata nel 2014 dalla volontà di Pinuccia Sardi come naturale prosieguo culturale della precedente attività della Galleria Carlina, che si pone come esplicito obiettivo la promozione di nuove realtà e progetti in relazione alla valorizzazione archivistica di artisti noti e meno noti del panorama italiano e di nuove generazioni legate alla sperimentazione sul contemporaneo. Dall’impegno e dalla vocazione di queste due istituzioni è nata una mostra sorprendente ed emozionante, dal titolo “Fatma Bucak. So as to find the strength to see” (6 marzo- 20 maggio 2018), a cura di Maria Centonze e Lisa Parola, che dimostra la vitalità, la qualità e la forza delle proposte progettuali e culturali, cui il sistema delle Fondazioni può dar prova quando lavora in sinergia.
La scelta di Fatma Bucak (Iskenderun, 1984), giovane artista di origine curda e nazionalità turca, di rilievo internazionale e dalla forte caratterizzazione sociale, come soggetto/oggetto di un’operazione d’arte di questo tipo sottolinea, in maniera esemplare ed esemplificativa, la funzione critica, divulgativa e in qualche modo catartica dell’arte contemporanea. Tutto ciò non solo, grazie alla qualità delle opere in mostra negli spazi della Fondazione Merz e dell’impeccabile curatela, ma soprattutto in quanto la scelta di realizzare la prima esposizione monografica in uno spazio museale italiano della giovane artista risulta essere la mossa opportuna, al fine di colmare un vuoto di proposta culturale che sembra caratterizzare in questi ultimi anni il sistema degli spazi pubblici di arte contemporanea italiani.

Fatma Bucak si presenta, infatti, come una delle più raffinate e promettenti artiste internazionali della nuova generazione, la cui ricerca sui temi dell’identità sociale e politica, della censura, dell’informazione e della violenza, perpetrata sulle libertà individuali e collettive, la rende una figura esemplare  di artista dedita alla sperimentazione poetica attorno ai complessi processi di indagine socio-antropologica e documentale, capace ad esempio di  esplorare costantemente le condizioni concettuali e ideologiche del rapporto identità-alterità nel mondo globalizzato, dei paesaggi di confine in un contesto geopolitico instabile e della violenza dei poteri sulle minoranze.
Il lavoro dell’artista si è sempre contraddistinto per il senso di urgenza nel restituire in modo critico i problemi e le tensioni che attraversano le nostre società globalizzate (come, ad esempio, la guerra diffusa, il problema dei rifugiati, la violenza di Stato e l’ascesa dei nazionalismi e dei fondamentalismi religiosi), individuando nell’arte un territorio di possibilità, di condivisione, critica e libertà, attraverso la produzione installazioni, video o performance capaci di portare a rappresentazione i rapporti di forza e le ritualità simboliche che caratterizzano le relazioni umane e la messa in forma dell’identità e dell’alterità culturale e di genere. Tutti questi elementi trovano una complessa e compiuta forma narrativa nella mostra in corso negli spazi della Fondazione Merz, mostrando la maturità dell’artista e la grande valenza critica dell’arte, attraverso un viaggio estetico/esperenziale capace di contenere molti temi e molti sguardi sul mondo.

Le curatrici ci prendono per mano e ci fanno fare diversi passi nel nostro delicato contesto sociale e geopolitico con un viaggio che comincia con l’installazione site-specific, Enduring nature of thoughts (2018), che si presenta come la materializzazione straniante e ipnotica di esperienze e testimonianze di dolore, perdita e emarginazione: decine di catini di ceramica bianca smaltata e il suono di gocce che cadono. Il suono e la disposizione spaziale trasmettono un senso caotico che parla di vicende stranianti e surreali metafore di perdite che si fanno invisibili. Subito dopo ci si imbatte in un’installazione di legno e abiti colorati addossata alla parete: De Silencio (2015), un patchwork di vestiti abbandonati dai migranti nell’attraversare il confine tra gli Stati Uniti e il Messico, che tematizzano in modo allusivo il tema dell’identità, la sua crisi e rimozione generata dal trauma delle migrazioni. Segue un grosso cumulo di terra rossa dove troviamo rose di Damasco intente a germogliare e crescere. Forse l’opera più commovente di tutta l’esposizione, che racconta di confini, instabilità, guerre e precarietà esistenziale attraverso la simbolica gentile e poetica delle rose e dell’ibridazione/adattamento di piante sradicate e ripiantate: è Damascus Rose (2018), un centinaio di piante di rose di Damasco (una delle varietà più antiche e oggi a rischio di estinzione a causa della guerra che obbliga i coltivatori ad abbandonare le loro terre e attività)  trasportate dalla Siria a Torino, innestate e coltivate in un letto di terra. Nella stessa attesa e speranza che le piante attecchiscano, mettano radici e crescano c’è il senso di precarietà, attesa e speranza di milioni di rifugiati siriani in fuga dalla guerra. 

La ritualità della messa in forma dell’umano e dei grandi archetipi trova rappresentazione nei video in mostra, veicoli di una rappresentazione dei rapporti di potere tra generi, culture e differenze antropologiche, attraverso i quali l’artista mette in scena la precarietà dell’esistenza e delle identità, dei confini e delle culture. Assistiamo in questo modo alle attività di una donna a piedi nudi sulle macerie, che infila nei buchi dei mattoni frantumati delle uova, l’essenza stessa della fragilità della vita che il femminile continua a disseminare tra le macerie, oppure alla riscrittura della genesi umana, non più al maschile, ma al femminile( Four ages of woman: Fall, 2013), in cui una donna nuda dai tratti pre-raffaelliti, incarnato pallido e i capelli rossi, in un paesaggio di terra e rocce ocra si fa sola protagonista della “storia”,  sfidando la mitologia, gli stereotipi e la natura. Nello stesso modo il tema dell’identità viene portato a rappresentazione dalle immagini di due uomini di spalle, nel deserto, con il sole allo zenit; in una zona del sud della Turchia e un racconto che mostra metaforicamente la realtà di una minoranza etnica (In An Empire of Imagination, 2016).
 
Ma le opere più forti, quanto apparentemente meno impattanti, sfruttano i linguaggi della grafica, dell’incisione e della decorazione: l’installazione 342 names ( 2017-2018) dove la memoria delle vittime di sparizione forzata in Turchia dopo il colpo di stato militare del 1980 si imprime su lastre senza nome che galleggiano in una vasca di alluminio e la una serie di lastre di zinco su cui l’artista ha impresso i segni ricavati da giornali turchi, europei, americani (Fantasies of Violence, 2017), resi astratti e incomprensibili nella loro valenza quasi decorativa. La violenza e i nomi delle vittime, come le loro storie, vanno in questo modo a cancellarsi, diventando illeggibili. L’oblio produce degli scarabocchi e testimonianze indecifrabili. La memoria, il ricordo, la storia vengono così portate a rappresentazione mostrando la mancanza e il rimosso.
 
Nelle opere all’interno della Fondazione come nell’installazione sonora esterna, I must say a word about fear (2014-2018) prende così forma il tentativo di restituire voce agli esclusi dalla storia e dai poteri, in un’articolata narrazione di confini, margini e conflitti portata avanti da un’artista come Fatma Bucak, capace di dare forma ai silenzi e alle immagini di strappi e rammendi che caratterizzano il contesto e la natura della fragile condizione umana.
 
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