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Esprimere libertà. Il Festival dei Diritti Umani, visto alla rovescia

  • Pubblicato il: 15/05/2017 - 15:27
Autore/i: 
Rubrica: 
CULTURA E WELFARE
Articolo a cura di: 
Amerigo Nutolo

A Milano un Festival segnato da tanti contributi originali e tanto accogliente verso il pubblico, da condurlo nel tema – quest’anno la libertà di espressione – senza che se ne accorga. Tra gli scatti ucraini di Andrea Rocchelli, i focus su Turchia (Ahmet Insel, Valeria Mazzucchi), Messico, Cina; i talk su giornalismo, hate speech, cyberbullismo; i dati e le analisi su informazione e espressione; tra arte, fotografia, illustrazione live, film in anteprima, formazione, documentari, apriamo gli occhi su 36 paesi. La 2a edizione del Festival dei Diritti Umani, “Ogni parola ha conseguenze. Ogni silenzio anche.” splende in una Triennale elegante e popolare, citizen-friendly. Un livello alto del confronto e dell’offerta, il linguaggio aperto e permeabile, coniugati alla qualità dell’approfondimento, sono una base solida per le edizioni future.
 


 
Negli spazi della Triennale la seconda edizione del Festival dei Diritti Umani si chiude dando respiro a nuove domande sul tema cardine di quest’anno: la libertà di espressione. Come in tutti i talk, il Salone d’Onore della Triennale di Milano ospita un panel di spessore: Angela Gui, ricorda Gui Minhai, suo padre, editore di Hong Kong detenuto dalle autorità cinesi e si succedono fra gli altri, Fabrizio Petri, Presidente del Comitato Interministeriale per i Diritti Umani, Michel Forst, una presentazione dei dati sull’inclusione di donne e bambini nel mondo (WeWorld Index 2017). Si discute di diritti a tutto tondo con una visione che va dallo sguardo di Gianluca Costantini – le cui illustrazioni live appaiono dietro chi parla restituendo emozioni e passaggi chiave del discorso – all’occhio giuridico-diplomatico, in una mattina curata con l’Ordine degli Avvocati; mestiere anche di Paolo Bernasconi, che presiede l’evento e Reset, l’associazione che lo promuove, nata nel milieu della storica rivista.
Affiancano il Festival molti partner che in gran parte cambiano in base al tema dell’anno: l’evento esprime livelli così eterogenei che è impossibile non restarne catturati. E’ un dispositivo che arriva a tutti, il cui cuore visuale sta nella fotografia e nel documentario. Leonardo Brogioni, cura esposizioni fotografiche e profilo instagram del Festival, secondo una linea slow. “L’aspetto di sintesi dell’immagine, il cui consumo è ora velocissimo sotto la pressione di social network e televisione, va superato. Chi si occupa di fotografia deve dare più di una semplice visione della realtà. Scegliamo non più immagini singole ma storie, narrazioni in grado di approfondire le tematiche più importanti.”
L’immagine rende più accessibili i discorsi e i temi trattati, anche per chi non ha presa su contenuti complessi, ne completa l’esperienza. Deve essere divulgativa e trovare un equilibrio fra estetica e contenuti, coinvolgere il pubblico. Su questo filo camminano prima il fotografo (con un occhio al committente), poi il curatore. William Eugene Smith, fotogiornalista, disse che un fotografo non può essere obiettivo, può essere onesto. Da fotografo, nei contesti più personali, provo a restituire una sensazione: devo capire cosa provo, per trasmetterlo. Come curatore entro in empatia col fotografo e riporto nel nuovo ambiente il suo impulso comunicativo originale. Che siano gli studenti arrivati nella mattina per l’attività didattica, o visitatori di arte contemporanea che arrivino da altri percorsi [come La Terra Inquieta ora in Triennale n.d.r.], un’esposizione deve poter allargare il pubblico: l’immagine che si adopera on-line, per avvicinarlo, è complementare a quella che, offline, si vive nel luogo dell’esposizione.” Due le mostre: la prima, di Mirko Cecchi, segue al contest #ioalzolosguardo (promosso con Leica, Polifemo, Fotografia&Informazione) tratta di diritto alla salute e virus Zika; From the last front line, invece, raccoglie una selezione di scatti di Andrea Rochelli dal conflitto civile ucraino: sette dei quali, su banner di grande formato, realizzati nel fossato dove trovò la morte con l’amico e sherpa, l’attivista Andrei Mironov. Le scene delle lotte sanguinose di Maidan a Kiev, sono segnate da un’iconografia, tra vittime di cecchini di governo e pestaggi di supposti infiltrati, che riecheggia la cruda matrice cristiana. Del teatro di guerra russo-ucraino del Donbass e dell’assedio di Sloviansk, Rocchelli restituisce il feroce senso di sospensione in ritratti di trincea raccolti durante i combattimenti a distanza tra le parti in lotta. Seguono ritratti di civili stipati nella penombra elettrica dei rifugi, cantine che possono convertirsi in trappole sono lo sfondo su cui posano intere famiglie, il cui volto riempie un campo visivo senza orizzonte né tempo. E’ negli scatti finali che c’è qualcosa di tragico. La natura residuale, abbandonata, del fossato in cui Andrea si ripara coi compagni, non ha più nulla di umano: è luogo di nessuno in cui qualcosa cede, e lì si forma l’ultima sacca d’intimità, sotto i colpi di nemici non identificabili. Rocchelli resta lì e fotografa, in primo piano o figura intera, sdraiati e accucciati, i compagni che lo circondando, i cui occhi s’agganciano al suo/nostro sguardo, restituiscono la spinta a sopravvivere, s’aggrappano a vicenda, all’ultimo appiglio di libertà e vicinanza umana. Nelle foto dell’ultima scheda c’è l’intensità e la violenza di un immaginario ritratto di caccia di sole prede, in soggettiva, poco prima dell’assalto finale, sproporzionato, impietoso: c’è tutta l’umanità sotto tiro, un richiamo d’amore per la vita. La bassa percezione dell’importanza del fotogiornalismo nel nostro Paese ha reso più preziosa la mostra (organizzata assieme a FNSI e Articolo 21). “C’è un problema di superficialità nell’editoria: – dice Brogioni – si lavora a livello d’intrattenimento, pur avendo a disposizione fotografi riconosciuti e premiati all’estero, photo editor, curatori a altissimi livelli. Rocchelli era un free-lance, senza tutele: in questi casi devi autoprodurti anche con raccolte fondi, e avere una vocazione ancora più forte. Da troppo tempo aspettarsi qualcosa da una testata editoriale non porta a nulla: ma la situazione può essere sbloccata solo dagli editori.” Questi, anche sono temi affrontati e articolati negli incontri, disponibili in video sul profilo FB del Festival, con testimoni, giornalisti, anche vittime di minacce, gli stessi genitori di Rocchelli.
 
Alla sezione fotografica si affiancano gli screening. Oltre ai film, risalta la rassegna di documentari, a cura di Sole Luna Doc Film Festival che con Andrea Mura e Chiara Andrich segna il cambio di passo: l’aspetto di denuncia passa in secondo piano senza abdicare al ruolo divulgativo, l’informazione stessa raggiunge più profondamente il target grazie a una chiave narrativa più morbida, biografica, culturale, relazionale, che rende il giudizio indipendente, più comprensibili i fatti e vicini i contesti narrati. La selezione, che ospita qui 19 pellicole, può mirare ad un pubblico molto più vasto. Il tema è già caro a Sole Luna, per il secondo anno nel Festival milanese, ma si possono rimettere in gioco i ruoli di pubblico, film, soggetti rappresentati, come fatto in altre rassegne. “A Palermo, dove Sole Luna è nato, dodici anni fa  – dice Chiara Andrich –  il pubblico va dal pensionato allo studente universitario, al cinefilo; a Treviso compensiamo l’età media più alta con rassegne e laboratori che avvicinano i giovani durante l’anno. Al di là della sua rinascita, il genere del documentario resta ancora di nicchia, ma noi formiamo il pubblico del futuro.” E Andrea Mura aggiunge “A Treviso con il contest video #crearelegami coinvolgiamo le scuole, ma già tre anni fa in un laboratorio Giovanni Pellegrini usò i telefoni cellulari per fare riprese con gli studenti; e abbiamo tenuto workshop per filmmaker avviati, con Andrea Segre e Alessandro Rossetto. Un’esperienza che ha coinvolto i soggetti stessi dei temi trattati nelle rassegne, è stata #MyEscape, film frutto di assemblaggio di video realizzati dai migranti in viaggio verso la Germania, da noi proiettato.” “Abbiamo avuto – ricorda Andrich –un’esperienza di Giuria con sei ragazzi richiedenti asilo, arrivati da aree subsahariane, che hanno selezionato, tra dieci, il documentario più aderente al tema del viaggio.”
 
Dietro, dentro, davanti la ripresa: in questa chiave tutto il Festival dei Diritti Umani può spingersi oltre. La rosa del cinema del reale può aprirsi: il pensiero va sia ai documentari partecipati che a Io sto con la sposa, film-viaggio reale di migrazione, o a casi come quello di Dagmawi Yimer che, dopo il proprio sbarco, ispirò e divenne coregista di Come un uomo sulla terra di Segre. Ma c’è uno scambio di ruoli tra i premi di quest’anno: il Premio di Reset, sulla libertà di espressione, va a Dönüş-Return di Valeria Mazzucchi un film che racconta la storia dell’abbandono della Turchia da parte del corrispondente di Radio France Internationale (RFI) che la regista avrebbe voluto affiancare nel suo lavoro: Jérôme Bastion dopo vent’anni, sotto la pressione della degenerazione del regime di Erdogan, lascia il paese e la Mazzucchi ne diviene biografa e sa farci sentire tutto il senso del limite del lavoro informativo di fronte agli eventi ciclici e fragili di una democrazia appassita prima di fiorire: l’amore per il composito popolo turco si scontra con la delusione e il senso di inappartenenza provato da Bastion nel vedere uccisi e incarcerati colleghi e cittadini e ridursi gli spazi di espressione pubblica. Sembra chiudersi l’orizzonte” della democrazia che l’Occidente vuole come cornice, si vede l’arbitrarietà con cui essa si perverte in copertura culturale per poteri autocratici e maggioranze pericolose che, ottenuta la legittimazione apparente dell’ufficialità democratica, ne mettono in crisi il valore: “è questa la nuova guerra” dice Jérôme davanti ai risultati delle elezioni del 2015. Sullo sfondo c’è la complicità silenziosa dei paesi che stabilizzano questi regimi. La disillusione di Dönüş fa pendent col racconto del giovane libico di Black Sheep, di Antonio Martino: un ribelle che resta intrappolato fra la lotta al regime di Gheddafi e il fallimento del sogno democratico. Il contesto turco è stato illuminato dalla presenza di Ahmet Insel, che ha offerto un quadro del paese fra tentato colpo di stato, ‘contro-colpo’ di stato di Erdogan, controllo/potere dei social network.
Ruolo dei social network ambiguo, emerso in molti frangenti nel Festival, che meriterebbe di essere posto più al centro, vista la ricchezza di spunti. “Nel Festival abbiamo provato a definire la libertà di espressione, in base anche ai condizionamenti posti dai grandi interessi economici e politici. C’è una competizione fra mondo della politica e della comunicazione, oggi, per interpretare, definire, la pancia del Paese. – ci dice Danilo Di Biasio, Direttore del Festival – E non sono tanto forti i condizionamenti dei governi, quanto quelli da parte di un mercato che regola le capacità di esprimersi. Parlando di cyberbullismo abbiamo poi analizzato come i modelli ‘vincenti’ che passano nel sistema televisivo, politico, rischino di divenire valori di riferimento.” Fenomeni che trovano sponda nei social network: Paola Barretta parlando di immigrazione e informazione ha discusso dell’asimmetrico accesso ai mezzi di espressione e citato Ilvo Diamanti che si è espresso contro la censura nei social network, vedendo più utile l’etichettatura di chi fa discorsi d’odio. Marcello Maneri ha descritto l’aspetto circolare di una politica che attraverso i social crea notizia e il pericolo, da parte giornalistica, di abdicare all’espressione di un giudizio: con il rafforzamento di coloro che spargono notizie false o parole d’odio. Allievi delle scuole di giornalismo, e inoltre un concorso, han contribuito a formare le nuove generazioni sui nodi dell’informazione ed espressione pubblica. La domanda è se la democrazia stia mutando con l’accesso della collettività a nuove forme di potere diffuso, capaci di generare pressioni anche su ruoli di mediazione come quello giornalistico, e di attivare forme orizzontali di censura e controllo, tramite i social network. “Il tema della democrazia, di come diventa un’altra cosa, merita da solo due festival: noi non lo abbiamo trattato. Ma abbiamo segnalato il pericolo di corto circuito fra hate speech e politici-imprenditori della paura. L’assenza d’intermediazione, detta disintermediazione, dovrebbe spingere i giornalisti a rivendicare un ruolo attivo, ma è una possibilità messa in discussione dalla precarietà, dal potere editoriale sui giornali. Nel caso del cyberbullismo, il fenomeno già esisteva, a prescindere dai social: ci si chiede se funzionino e quali debbano essere i metodi repressivi o preventivi. Ma, poi, alla famiglia e alla politica s’aggiungono i grandi player digitali che a volte si presentano come mezzo di comunicazione fra persone, a volte come organo d’informazione, deresponsabilizzandosi rispetto ai contenuti trasmessi e nascondendosi dietro la libertà di espressione.” Anche di questo si è parlato in Triennale.
 
 
Il Festival è un tassello prezioso del panorama culturale nazionale e locale. Un aspetto che richiede un taglio più incisivo è la sezione artistica. C’è stato un confronto fra artisti di tre generazioni, ma i nomi di Pistoletto e Ai Wei Wei, senza entrare nel merito di valutazioni estetiche, risultano auto-inflazionati già per la posizione dominante nei mercati e nelle istituzioni: poco importa il valore aggiunto teorico o biografico di un artista con la libertà d’espressione. Il ricorso a opere ad hoc e alle risorse performative e processuali dell’arte, arrischiandosi in operazioni meno didascaliche e più articolate, permetterebbe di realizzare di più anche con nomi meno mainstream, senza forzare il tema né aggirarlo. Se si vuole un nome che attiri, tanto vale avviare operazioni laboratoriali in vista del festival con produzioni vere. Di artiste dei diritti che fanno self-branding con la roulette russa, trasformano la partecipazione in circo, o da ambiti sociali estraggono installazioni concettual-processuali troppo pulite, è pieno il mondo: e per fortuna si può inventare altro. Altra integrazione possibile: azioni sul campo che aprano nuovi spazi di diritto in contesti caldi, legati al tipo di diritti oggetto del Festival, per fare di esso sempre più un agente promotore di cambiamento, che inneschi buone pratiche e meno un luogo di fruizione passiva. Sul resto il Festival non solo è sulla buona strada, ma la sa indicare.
 
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Ph | Talk | 7 maggio 2017 | Festival dei Diritti Umani | Courtesy FDU/Leonardo Brogioni. Illustrazione Gianluca Costantini | A dx Danilo De Biasio, Direttore. In centro Michel Forst, ONU. A sx interprete Civica Scuola Interpreti e Traduttori Altiero Spinelli, Milano.