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Cultura, un welfare per il nuovo millennio

  • Pubblicato il: 29/09/2017 - 10:59
Autore/i: 
Rubrica: 
DOVE OSA L'INNOVAZIONE
Articolo a cura di: 
Giovanna Barni

Lo scorso 18 settembre si è tenuta in prima lettura alla Camera la discussione sulle linee generali della proposta di legge “Disciplina e promozione delle imprese culturali e creative”, prima firmataria l’Onorevole Anna Ascani. La proposta si prefigge di “favorire il rafforzamento e la qualificazione dell’offerta culturale nazionale, come mezzo di crescita sostenibile e inclusiva, e la nuova imprenditorialità e l’occupazione, con particolare riguardo a quella giovanile, mediante il sostegno alle imprese culturali e creative”.  Ne parliamo con Giovanna Barni, Presidente di CoopCulture che parteciperà ai laboratori di LuBec17. “Si tratta certamente di un primo passo per evidenziare l’importanza dell’impresa culturale e creativa in funzione, per dirla con l’On. Ascani, dell’ “unico sviluppo possibile del nostro paese”.  Tuttavia, proprio alle soglie dell’Anno Europeo del Patrimonio Culturale, occorrerà non fermarsi a un mero, seppur necessario, riconoscimento ma proseguire verso l’adozione di politiche armoniche di sistema in questo settore, a partire da un approccio integrato al patrimonio culturale, come diritto sociale e risorsa comune, e da una riqualificazione dell’impresa culturale, come strumento di pubblica utilità e oggetto di Accountability.(..) Diventa quindi sempre più rilevante la necessità di misurare in termini di sostenibilità i diversi impatti, anche economico, ma, soprattutto, sociale e culturale”.
 


 
Patrimonio culturale come diritto e risorsa
Nel suo articolo recentemente apparso su queste pagine “Musei, bilancio di sostenibilità e dintorni”, Irene Sanesi ha opportunamente evidenziato come il patrimonio culturale possa essere un fattore di welfare. Nell’era della Convenzione di Faro, possiamo vedere nel “diritto al patrimonio culturale” inteso come diritto, individuale o collettivo e quindi anche come risorsa, di trarre beneficio dal patrimonio, un vero e proprio diritto sociale che contribuisce alla realizzazione delle persone attraverso la pubblica utilizzazione di risorse comuni.
Questa visione sgombra il campo dalla subordinazione alla mera logica economica, che assoggetta la valorizzazione del patrimonio culturale alle risorse finanziarie pubbliche disponibili o all’obiettivo della crescita degli introiti derivanti dall’incremento dei visitatori. Inoltre, spinge verso due conseguenze ulteriori: ciò che rende pubblico il patrimonio non sono più titolarità e forma di gestione dei beni, ma la pluralità dei destinatari e la collettività del suo uso nel presente e nel futuro; quello che assicura il diritto alla fruizione culturale, non è uno Stato unico gestore in quanto proprietario dei beni di fronte ad una cittadinanza passiva, ma un impegno dinamico collettivo in un processo sociale di produzione di valori e soddisfazione dei diritti, regolato e indirizzato dallo Stato nell’interesse generale.
Diventa quindi sempre più rilevante la necessità di misurare in termini di sostenibilità i diversi impatti, anche economico, ma, soprattutto, sociale e culturale.
 
Il ruolo dei musei
Guardando in concreto a quanto accade in Italia come all’estero, risulta evidente che i musei gestiti in house aprono se ci sono risorse disponibili, chiudono se non ci sono. Molti dei musei stranieri, spesso presi a modello, basano la propria sopravvivenza su continue attività di fund raising, con la conseguenza che se una campagna va male sono costretti a chiudere i battenti o, nella migliore delle ipotesi, a dolorosi tagli a scapito della qualità e della dignità del lavoro. Paradossalmente questa stessa conseguenza deriva anche dalla soluzione antipodica, quella cioè del museo pubblico in house, in quanto l’obiettivo solo conservativo o di fruizione passiva rende il museo un mero centro di costo.
Lo scatto da fare è allora nel pensare al museo non come entità a sé, ma come uno degli elementi che insieme ad altri può rendersi propulsore di diversi possibili valori, in grado di soddisfare una molteplicità di diritti, da quello di cittadinanza a quello all’educazione, a quello dell’intrapresa economica che produce lavoro e alimenta una filiera. Se intorno ad un museo, infatti, nasce un’offerta territoriale integrata che è diretta ai fruitori e coinvolge altre realtà culturali, attori economici, enti associativi e privati cittadini quel museo sarà stato attivatore di una catena del valore ben più lunga e significativa rispetto al museo che rimane chiuso in se stesso, generando al massimo buoni introiti. Passare dal conto economico al piano strategico di sostenibilità vuol dire pertanto trasformare i ricavi in risultati e i costi in investimenti o impieghi per creare identità comuni, opportunità di sana e qualificata occupazione, crescita del sistema produttivo, percorsi educativi e formativi coerenti, dinamiche di inclusione sociale.
Questo, a mio parere, è il significato da dare alle sfide poste dall’Anno Europeo del Patrimonio: il patrimonio fattore strategico per uno sviluppo sostenibile, con i suoi 17 obiettivi come da Agenda 2030, e l’Europa come laboratorio dell'innovazione in materia di patrimonio culturale.
 
Sostenibilità come criterio d’equilibrio tra diritti e responsabilità
In questo scenario il concetto di accountability non può semplicemente essere riferito al rispetto di standard di qualità interni alle istituzioni culturali, ma va collegato al rispetto degli indicatori di sostenibilità: la vecchia logica degli standard definisce la qualità delle strutture e dei servizi e delle relazioni dirette che l’istituzione mette in campo, indipendentemente dagli effetti sui destinatari e sulla comunità nel suo complesso. Ma questo non basta più perché si riferisce a un museo chiuso in sé stesso e non al sistema di relazioni valoriali che possono essere prodotte dal patrimonio culturale. Gli indicatori di sostenibilità invece misurano la portata degli effetti diretti e indiretti che possono essere moltiplicati lungo catene che si allargano in senso verticale e orizzontale. La differenza non è da poco.  
Più nello specifico, la nostra esperienza ci ha consentito di registrare un dato inconfutabile: l’impresa culturale produce tipicamente, rispetto ai diversi stakeholder, non solo un impatto di tipo economico ma anche impatti sociali e culturali.
Ora, mentre rispetto all’impatto economico che attiene al valore della produzione e dell’indotto molto si è fatto e si continua a fare - il lavoro svolto negli ultimi anni da Fondazione Symbola lo dimostra ampiamente - sulla valutazione sociale e culturale, il processo è tutt’ora in progress. CoopCulture sta provando mettere a fuoco dei parametri utili a rendicontare la sostenibilità (cfr. Rapporto Sostenibilità 2016). Pur in assenza infatti di una definizione settoriale dei livelli di qualità della valorizzazione – che pur prevista dall’art. 114 del Codice dei Beni Culturali non ha ad oggi ancora avuto seguito – ritengo sia fondamentale fare riferimento alla normativa europea in tema di sostenibilità (Direttiva 95/2014) che dal 1 gennaio 2017 costringe le grandi aziende a riflettere anche sulla qualità ed eticità della propria filiera.
Ciascuno dei tre impatti citati ha poi rispetto alle comunità ed ai territori, degli effetti sia diretti e immediatamente percepibili, sia indiretti che si producono nel medio e lungo periodo.
Qui di seguito uno schema molto semplificato ma utile a una rapida visualizzazione della lettura proposta.

Laddove l’impatto economico diretto attiene quindi alla capacità di un’impresa di aumentare il proprio livello di autonomia economica e finanziaria, quello indiretto riguarda la capacità di espandere, al di fuori di sé, benefici diffusi, coinvolgendo altri attori della filiera (turismo, enogastronomia, artigianato, produzioni tipiche, ecc) in catene del valore sempre più lunghe e “restitutive” rispetto al territorio. Il dato più interessante oggi a riguardo è l’effetto moltiplicatore del sistema produttivo culturale e creativo rispetto al resto dell’economia, che registra un coefficiente pari a 1,8.
L’impatto sociale - la cui valutazione è resa oggi particolarmente necessaria dal passaggio da un sistema di welfare statale ad una welfare society - non è di facile misurazione in quanto può essere difficile dimostrare l'esistenza di un collegamento tra l'attività realizzata dall’impresa e il cambiamento generato. Tanto più se per impatto si intende, opportunamente, il cambiamento sostenibile di lungo periodo nelle condizioni delle persone e dell’ambiente che l’intervento realizzato dall’impresa ha coinvolto. In questo caso dunque una prima valutazione possibile va fatta sull’occupazione generata, sia direttamente che indirettamente, in quanto essa riferisce immediatamente del vantaggio ottenuto dalle persone in termini di equità e prosperità e produrrà ricadute importanti socio-economico sull’intera comunità. Se poi si tratta di occupazione di matrice cooperativa l’impatto sociale è ancora più potente in quanto i soci di una cooperativa “naturalmente” praticano la democrazia e lavorano in un ambiente equo ed inclusivo.  
 
L’impatto culturale più evidente è la crescita e la diversificazione dei pubblici dell’arte e della cultura, ponendo l’accento sul concetto di audience development (quello che Pierluigi Sacco definisce “empowerment”) misurato non solo attraverso la crescita numerica dei pubblici ma anche guardando alla loro diversificazione e coinvolgimento. Idealmente il coinvolgimento produce un effetto moltiplicatore: la fruizione culturale partecipata genera nel lungo periodo sulla collettività di riferimento stimoli per la produzione di nuovo pensiero e per la  costruzione di partenariati utili a mettere in circolo nuova linfa progettuale creativa.

 
Impresa culturale e governance solidale
Vale evidentemente la pena avviare dei processi di rendicontazione di tali effetti in quanto la “misurabilità” degli stessi può incidere direttamente sulla acquisizione/conservazione dello status di impresa culturale: quanto più un’impresa che opera nel settore produce gli impatti visti tanto più è definibile impresa culturale e, nel tempo, il mantenimento/incremento degli impatti ed un loro corretto monitoraggio potrebbe consentire l’accesso ad un regime di favore.
Per tutto quanto sin qui detto, è evidente che la misurazione non va fatta da una prospettiva museocentrica. Questa, infatti, genera una visione oppositiva tra museo e territorio, tra soggetti pubblici e privati, tra istituzione culturale e comunità, tra cultura e turismo, tra manager e conservatori, e così via. E in più separa i musei dal ciclo dello sviluppo e fa in modo che la cultura non influenzi positivamente lo sviluppo democratico, puntando solo a massimizzare quella funzione estetica contemplativa, che era un tempo appannaggio di élite ma oggi è, in modo diverso, tipica di un turismo “usa e getta”. Infine, questa impostazione spinge a massimizzare gli introiti direttamente prodotti, facendo dei musei meramente dei centri di ricavi e di costi. 
Per lasciarsi alla spalle questo approccio non basta l’opera isolata di un direttore manager, e oggi anche la Riforma dei Musei va in questa direzione (“i  musei statali erano in grado di esistere, ma salvo eccezioni  difficilmente  riuscivano a svolgere ruoli attivi nella relazione con le città, con i visitatori e il grande pubblico” ha di recente affermato Baia Curioni su queste colonne) Ed è proprio qui la svolta: se è necessario che ci sia un amministratore responsabile, che abbia un ruolo attivo nel pianificare il contributo che il proprio museo può dare ad una crescita sostenibile, è altrettanto necessario, che questi non sia da solo a governare questo piano, e che un ruolo attivo assumano anche i moltissimi soggetti che insistono su un territorio, in esito ad una pianificazione partecipata.
Il metodo per il futuro, ritengo, non possa essere che il Tavolo di Partenariato a cui dovranno sedere certo gli attori istituzionali del territorio, ma insieme alle rappresentanze delle associazioni e delle imprese specializzate, enti e  comunità locali nel loro complesso, in un rapporto di sussidiarietà e responsabilità per una nuova programmazione territoriale, come prevista anche dalla riforma del Terzo settore.  Questo con ruoli concorrenti e solidali: il ruolo di governo e controllo implica una responsabilità che il privato non può e non deve avere, cosi come ci sono tante funzioni commerciali e di servizio che è improprio assumere in capo all’organizzazione pubblica, pena quella commistione tra controllore e controllato che ingenera gravi distorsioni a uno sviluppo democratico.
È da questo approccio che potrà probabilmente scaturire la migliore disciplina per l’impresa culturale, in specie se no profit, quella che varrà alla rimozione dei fattori ostacolanti (frammentarietà dei contesti e delle programmazioni, complessità delle procedure, assenza politiche del lavoro ad hoc, difficoltà di accesso al credito, pressione fiscale) e potrà finalmente determinare la creazione di fattori abilitanti (infrastrutture territoriali comuni, semplificazione delle procedure, politiche del lavoro incentivanti, contributi agli investimenti di sistema, accesso al credito agevolato) per lo sviluppo delle imprese, del settore, del Paese.

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