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Cultura dove sei?

  • Pubblicato il: 03/11/2012 - 14:53
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Articolo a cura di: 
Chiara Tinonin

Milano. «Cultura dove sei?» ci chiedeva qualche anno fa l’artista Alfredo Jarr sui cartelloni pubblicitari del suo progetto di arte pubblica «Questions Questions» a Milano. Era il 2008 e la crisi che guardavamo con lo stesso distacco con cui siamo abituati a guardare gli uragani statunitensi, stava esplodendo anche nel vecchio continente.
Ci ponevamo, allora, le domande di Jarr: la cultura è critica sociale? La cultura è politica? Soprattutto, la cultura è necessaria? Poi da oltreoceano è arrivato il vento della crisi e le risposte che provavamo a discutere sono state spazzate via dai nuovi lemmi del nostro lessico quotidiano: spending review, welfare, debito pubblico, Grecia, default, governo tecnico.
Oggi, dopo quattro anni di crisi, Milano si chiede quali siano le sfide della politica culturale del domani ospitando uno dei padri fondatori dell’economia della cultura, l’australiano David Throsby, Professore all’Università Macquarie di Sydney, già Presidente dell’Association for Cultural Economics International e membro del comitato scientifico per i World Culture Reports dell’Unesco[1]. La sua lecture «Cultural policy and globalization: current trends and future challenges» è stata promossa dal Centro di Ricerca ASK – Art, Science and Knwoledge dell’Università Bocconi all’interno del programma «Paolo Fresco Lecture»e moderata dall’economista Stefano Baia Curioni.

Secondo Throsby, l’enfasi posta sul nesso tra creatività e innovazione nella dimensione globalizzata è diventato un mantra da scardinare. «Il processo per cui creatività porta a innovazione, innovazione porta a cambiamento tecnologico, cambiamento tecnologico porta a miglioramenti di produttività, che a loro volta generano crescita economica, non può essere definito come lineare» spiega l’economista. Nella sua visione, le relazioni di scambio tra cultura, industrie culturali e industrie creative possono essere rappresentate piuttosto da una figura concentrica dove gli artisti e le organizzazioni culturali si trovano nel nucleo e diramano idee, talento, creatività ed esperienza a cerchi limitrofi, occupati da settori sempre più commerciali man mano che ci allontaniamo dal centro. Adiacenti al nucleo appaiono dunque le industrie culturali, le organizzazioni che producono beni e servizi culturali come i teatri, i musei, le case editrici. Seguono poi le industrie creative come la moda, l’architettura, il design. Le idee creative generate al centro viaggiano tra questi cerchi, ma sono a loro volta influenzate dai diversi strati del cerchio, attraverso processi osmotici.
Per descrivere il modello, Throsby ha ricordato una recente esperienza presso un teatro londinese, dove si accingeva a misurarne il valore generato. Per chi produce valore un teatro? Per gli spettatori? Per l’insieme dei professionisti che vi lavorano? Per la comunità che abita dove il teatro ha sede? Provando a definire il valore per le diverse categorie di stakeholders insieme ai professionisti del teatro, Throsby ha raccolto una frase emblematica: «qualunque valore produciamo, sicuramente tutto parte dal palcoscenico». Ecco, allora, la centralità della produzione culturale che spiega perché l’economista tenga a precisare che «la costruzione di una politica culturale riguarda la cultura, cioè le cultural industries, e non necessariamente l’economia». Pronunciata da un economista, la frase fa un certo effetto, ma non significa dimenticare che, proprio per la complessità della misurazione del valore generato dalla cultura, la progettazione di una politica culturale debba «abbracciare economia, sociologia, arte, cultural studies, management, pianificazione urbana e regionale e le relazioni internazionali».

Ora, caliamoci nella vita di tutti i giorni. La crisi e le limitazioni alla spesa pubblica hanno portato in primo piano emergenze socio-economiche importanti, lasciando la cultura in una zona d’ombra, marginale, se vogliamo, al perimetro del cerchio.
Throsby ci suggerisce, allora, di guardare alla cultura in termini di valore pubblico, cioè quel valore che una società nel suo insieme genera attraverso la spesa pubblica. Esso non si misura solo con la convenzionale analisi costi-benefici (che considera solo quegli impatti economici che possono essere misurati in termini di flussi finanziari) ma anche con nuove misurazioni come gli indicatori del benessere sociale.
«Il valore pubblico della culturaprosegue Throsby – è composto dal suo valore economico e da quello culturale. Il valore economico è creato dal valore di mercato dei beni e servizi culturali prodotti e dal valore non di mercato che riflette la domanda esistente e quella opzionale di arte e cultura. Il valore culturale, invece, è espressione dei valori intrinseci dei beni e servizi culturali (valori estetici, simbolici, spirituali), valorizza l’attività creativa degli individui, contribuisce a realizzare il valore sociale del dialogo interculturale e supporta il ruolo delle arti all’educazione». Considerando la cultura in questi termini, Throsby conclude presentando la corretta politica culturale del futuro: una politica che «comprende i vantaggi economici (di mercato e non di mercato) delle arti e della cultura; che riconosce l'importanza fondamentale del valore culturale come componente del valore pubblico generato dal settore; che favorisce un clima positivo per migliorare l'impegno dei privati nelle arti; che promuove la centralità della politica culturale nella funzione di governo coinvolgendo una vasta gamma di Ministeri (Cultura, Istruzione, Servizi sociali, Economia)».

Una lezione magistrale utile e chiara che dovremmo tenere a mente per il prossimo 15 novembre, quando a Roma si terranno gli Stati Generali della Cultura. Mi piacerebbe che proprio lì, Alfredo Jarr riproponesse la domanda «Cultura, dove sei?» e che la risposta fosse, all’unisono, «al centro».

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[1] Formatosi a Sydney e alla London School of Economics, David Throsby si è occupato di alcune tra le questioni più spinose dell’economia della cultura – come la disuguaglianza e l’incertezza del reddito degli artisti – sistematizzando la disciplina con ricerche del calibro di «The production and consumption of the Arts. A View of Cultural Economics» (Journal of Economic Literature, 1994) ed emergendo come voce fuori dal coro soprattutto nel campo delle arti performative – dove ha superato alcune visioni definitive come il «Morbo dei Costi di Baumol e Bowen». Il suo libro «Economics and Culture» (Cambridge University Press, 2001) è un vero pilastro per gli economisti della cultura, ma sufficientemente divulgativo per chi voglia approcciare la materia in maniera organica e, più di recente, «The Economics of Cultural Policy» (Cambridge University Press, 2010) apre un interessante dibattito sul progressivo interesse per le industrie creative, percepite come risorsa per l’innovazione e il dinamismo economico, e il loro legame con il settore culturale.