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Crollano i muri e si aprono nuovi sipari

  • Pubblicato il: 02/12/2011 - 10:20
Autore/i: 
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Catterina Seia
Roberto Cecchi

Il Paese dei Beni culturali è in costante emergenza. Qual è la reale situazione?

Diversa da quella che probabilmente immaginiamo. Il clima nei confronti dei beni culturali sta evolvendo, da pochissimo tempo, velocemente, in termini più maturi. Si inizia ad avere la percezione che siano una prospettiva reale e concreta per il Paese e non solo il «soprammobile», il peso di un’eredità da mantenere al quale storicamente abbiamo guardato, a partire dal Duomo di Milano, o dalla Basilica di San Marco. Un paio di anni fa avevo scritto un editoriale per «Il Giornale dell’Arte» in merito al primo rapporto sull’economia della cultura della Commissione Europea, che è riuscito a dare una dimensione chiara e misurabile del fenomeno. Era evidente la centralità della cultura come fattore di sviluppo e la rilevanza del fatturato dell’industria culturale, superiore a quello dell’auto, per non parlare del tessile. Da allora sono stati fatti molti passi avanti, ma ci sarebbero ancora molti approfondimenti da fare. La cultura è ancora un settore sottostimato economicamente. Non si è mai voluto intendere che la nostra credibilità passa attraverso questo asse. Non possiamo competere industrialmente,
sulla chimica piuttosto che sulla meccanica, ma non abbiamo concorrenti al mondo sul piano culturale. Si continua a dire che il patrimonio culturale deve rendere: il patrimonio culturale già rende, rende tantissimo al Paese, ma non sappiamo computare quanto. Quindi dobbiamo lavorare su questo punto.

Che cosa fa lo Stato?

Non è più immaginabile uno Stato onnipresente. I valori per cui si impegna per il patrimonio culturale non sono dissimili a quelli di 30 anni fa, ma si tratta di una percentuale di bilancio risibile, intorno allo 0,21%, inadeguata in rapporto alla dimensione del patrimonio. In altri Paesi, meno dotati patrimonialmente, è superiore di 2-3 volte. Se ragioniamo su ulteriori prospettiche riduzioni potremmo arrivare allo 0,10%. La sola
sommatoria del patrimonio archeologico di Roma è di qualche milione di metri quadrati. Gli investimenti consentono un archeologo ogni 34 chilometri quadrati di siti, o un architetto/storico dell’arte ogni 57 palazzi tutelati. Il Colosseo rappresenta solo una piccola percentuale, eppure l’intervento di recupero costa 25 milioni di euro.

L’intervento del privato è quindi fondamentale.

Ma il privato investe poco. Assistiamo a delle forme di regalia, di assistenza, non a veri e propri processi d’investimento. E non possiamo illuderci che le imprese vadano a collocarsi «patrimonio minore», diffuso, caratteristica del nostro Paese, come ripete anche Andrè Castel in ogni pubblicazione che ci riguarda. La collezione sta dentro al contesto e il contesto sta dentro alla città. È un tessuto culturale denso, stratificato. Dalle
imprese avremo fondi per ciò che determina effetti potenti di comunicazione. Non a caso la grande operazione di restauro a costo zero viene fatta per «il Colosseo». Tod’s potrà raccontare al mondo ciò che sta facendo, pur non avendo esclusiva - se non nei lavori che direttamente finanzia - né potendo inserire pubblicità.
Un’operazione che ha analogie con un precedente nella sponsorizzazione della Sony per il restauro del Giudizio Universale in Vaticano. Questo è comunque un momento molto difficile, ma interessante, perché si sta muovendo il mondo. A partire da quello imprenditoriale, che ha sempre considerato la questione dei Beni Culturali un vincolo allo sviluppo. Pensi alle infrastrutture: le Sovrintendenze erano percepite come il «signor no». Oggi si sta ragionando in termini di Belle Arti. Le aziende iniziano a comprendere che un dialogo strutturato su un bene rilevante per l’economia di un territorio, che può essere comunicato, può generare quel recupero di reputazione che è forse la risorsa più scarsa in questo momento, e non solo per le imprese.

In Della Valle che cosa ha percepito? Un’attitudine personale, una valutazione lungimirante, una sagacia perativa, un imprenditore che si impegna in prima persona anziché agire attraverso strutture manageriali? L’operazione ha generato delle emulazioni,  è estendibile? Come?

È stato un incontro di volontà. Voleva fortemente occuparsi del Colosseo, evidentemente coerente con la sua visione imprenditoriale. Noi volevamo aprire questa strada con un simbolo. Non vedo per ora epigoni. Ci sono state immediate reazioni a Firenze, Pompei, Venezia, anche da investitori internazionali, ma ancora pochi fatti.
L’operazione Colosseo è replicabile e vogliamo estendere il modello. Con il Colosseo abbiamo ideato un bando di gara internazionale con l’obiettivo di stimolare la creazione di nuovi percorsi, strumenti più attuali e intelligenti per utilizzare il patrimonio. Non possiamo replicare ciò che è stato fatto a Venezia, con la brutalità della pubblicità sparata su Palazzo Ducale e il Ponte dei Sospiri. Capisco la posizione della Sovrintendenza che non ha risorse, ma occorrono strumenti alternativi. Se avessimo aperto sul fronte pubblicità avremmo trovato una densa concorrenza; invece, pur avendo diffuso il bando per quattro mesi sulle principali testate del mondo e nelle Ambasciate, non abbiamo avuto la ressa. La Bocconi, nostro consulente, ci aveva avvertiti che dando contropartite simboliche avremmo corso il rischio di andare deserti, ma dovevamo
dare un segnale, sperimentare nuove strade, per immaginare nuovi modelli di cooperazione. Dobbiamo nel contempo pensare a come «collocare sul mercato» le eccellenze periferiche.
Per Cosenza, che è bellissima ma sconosciuta, piuttosto che Lagonegro, la pubblicità a metro quadro non regge, ma neppure la «formula Colosseo». Quindi occorre una solida strategia per non essere scoperti sul fronte della tutela, una politica che si attrezzi per aprire al privato in modo intelligente.

Come viene determinato il valore economico delle operazioni, ovvero del prezzo del bene ai fini di comunicazione, come ad esempio nell’operazione Colosseo?

La gara dà il valore economico. Qualcuno ha eccepito che il valore dell’operazione avrebbe dovuto essere di 200 milioni. Il Colosseo deve essere restaurato per 25 milioni. L’esclusiva è data sull’operazione e non sul bene.
Per Pompei e i Campi Flegrei avete presentato un programma molto articolato. Come pensate di ingaggiare il privato?

Per la prima volta abbiamo portato un progetto-tipo al Consiglio Nazionale, coinvolgendo tutti gli attori, pubblicando tutti i verbali con l’evidenza delle criticità dell’area documentate in cartografie. Un’operazione di trasparenza e chiarezza, anche per ricevere contributi di pensiero. Un progetto semplice da sostenere.
Ci sono 1500 domus da «adottare». È un quadro di riferimento a partire dal quale il privato si può inserire, concordandone l’evoluzione in una cornice in cui l’amministrazione dà le priorità.

Le aziende chiedono di non essere considerate meri fornitori di risorse finanziarie, ma di condividere un percorso. Le nostre Sovrintendenze riescono a interloquire con il mondo imprenditoriale? In quale modo prevedete di agire per creare sensibilità nelle vostre braccia periferiche?

Abbiamo professionisti eccellenti, che operano in condizioni inadeguate rispetto al quadro internazionale. Partiamo da una tradizione per la tutela che viene studiata in altri Paesi per tentare di replicarla (nelle leggi, nella carta del restauro e addirittura nella nostra struttura amministrativa), si eseguono oltre mille interventi all’anno e i nostri restauratori vengono chiamati nel mondo. Svolgono il loro compito quasi per puro spirito di servizio.
Pensiamo a un dato: i nostri direttori di musei guadagnano 1500-1700 euro al mese. Vale per gli Uffizi, per Brera, vale per Capodimonte e per gli altri 466 musei dello Stato. Niente a che vedere con ben altri emolumenti di musei europei e d’oltre oceano. I sovrintendenti sono generalmente storici dell’arte o archeologi, che non hanno confidenza con la questione economica, quindi vanno assistiti, inevitabilmente. Sono competenze non presenti, che vanno costruite, soprattutto nei quadri. Va fatta una riflessione urgente su come attrezzare la periferia
in funzione di questa nuova visione delle cose per smettere di vivacchiare e fare il salto di qualità.

Quali sono le evoluzioni dell’«azienda MIBAC»? Come si sta attrezzando, anche guardando alle best practice internazionali, anche se non è detto siano sempre esemplari.

La priorità è fare sistema. Il patrimonio è male utilizzato e poco visitato, anche se taluni musei lo sono anche troppo, come gli Uffizi, ma a poche decine di metri il Bargello lo è pochissimo, come le Ville Medicee, Brera, Capodimonte. La rete potenziale del tessuto del nostro patrimonio funziona per punti, come una monade. Poca informazione, promozione, collegamenti tra le strutture museali e il resto.
Credo che il ruolo dello Stato debba essere di tutela, di controllo e indirizzo, non di gestione, per la quale va sviluppata un’intesa profonda con il privato, tenendo ben distinti di ambiti di competenza. Il rapporto ora è a un livello banalizzato, primordiale, di scambio quasi in natura: denaro in cambio di servizi. Il privato deve essere coinvolto per la sua competenza imprenditoriale, cioè per la capacità di costruire degli scenari che il pubblico non sa e forse non può fare. Partendo dalla questione dei servizi aggiuntivi, di cui tanto si dibatte in questo periodo, che è un aspetto cruciale per la gestione del nostro patrimonio museale, che non può essere circoscritta a se stessa, ridotta a una riflessione interna all’amministrazione, immaginando il privato come un banale fornitore di servizi. Il privato deve essere stimolato ad elaborare nuove soluzioni, se perdiamo questo passaggio perdiamo dieci anni. Il Patrimonio Culturale e l’imprenditoria italiana sono entrambi una risorsa.

Gli strumenti legislativi sono idonei a favorire la cooperazione?

La normativa è sufficientemente flessibile, ma l’aspetto fiscale è sostanziale. C’è stata una regressione. Con la cosiddetta «Legge Scotti» di disciplina del patrimonio culturale del 1982, si avevano dei valori dell’IVA al 2%. Un incentivo poderoso, che aveva impresso un’inversione di tendenza radicale. Esistevano strumenti di agevolazione fiscale che il Ministero dell’Economia, indipendentemente dal Ministro, nel corso degli anni
ha abbattuto sistematicamente creando danni considerevoli, in una visione a breve termine: aumentando l’IVA si ha un immediato risultato di cassa per lo Stato, ma diminuiscono gli investimenti. Sul Colosseo, sponsorizzazione e restauri, si paga il 20% di IVA. A prescindere dalla fiscalità inadeguata, il vero punto è che non abbiamo la forma mentale del cittadino che concorre alla conservazione del proprio patrimonio. Neppure il FAI ha ancora sfondato su quel fronte. In Inghilterra il fenomeno del National Trust, con tre milioni e mezzo di associati,
ci dice che le famiglie inglesi considerano l’adesione un obbligo civile. Va costruita a livello paese un’educazione diffusa. Mi piace la parola sponsor e ancor di più mecenate. Ma abbandonerei volentieri entrambe per il termine investitore. Abbiamo bisogno di persone che credano davvero che investire
in cultura non sia un’elemosina o una qualche altra forma consolatoria del vivere civile. Servono idee e mezzi per introdurre questi potenziali fattori di produzione all’interno del circuito virtuoso del mondo imprenditoriale. S’intravedono margini di crescita straordinari che aspettano solo di essere colti.

Roberto Cecchi, già Direttore Generale per i Beni Storico, Artistici ed Etno-antropologici del Mibac e Commissario straordinario per le aree archeologiche di Roma, Ostia e Napoli, attualmente ricopre il ruolo di Sottosegretario ai Beni Culturali

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dal X Rapporto Annuale Sponsorizzazioni del Giornale dell'Arte (novembre 2011)