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Come l’arte trasforma l’azienda

  • Pubblicato il: 30/11/2012 - 01:04
Autore/i: 
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Chiara Tinonin
Casa Cavazzini

Bologna. Mi preparo all’intervista con Patrizia Moroso sfogliando la storia dei prodotti della sua azienda, scorrendo la lista degli artisti presenti alla mostra «Metamorphosis. Le collezioni Moroso fra design e arti visive»[1] – che celebra i 60 anni della Moroso nella sua città natale, Udine – e rileggendo le dichiarazioni al convegno «Business meets Art» dello scorso ottobre, in cui l’Art Director aveva tenuto a sottolineare la stretta relazione tra l’orientamento alla qualità dei prodotti e l’investimento culturale di un’impresa. Industria creativa per eccellenza, il design si muove fluidamente tra idee, visioni, forme e materiali. Il dialogo con l’arte appare forse scontato. Eppure, per Patrizia Moroso non è necessario perseguire obiettivi precisi nell’introdurre l’arte in azienda. Bisogna, semplicemente, amarla. E questa ci porterà là dove vogliamo andare. E anche oltre.

Iniziamo dal principio. Come nasce la vostra intenzione di sostenere la produzione di arte contemporanea?
Le radici affondano in qualcosa di autentico, cioè un puro amore per l’arte che fa parte della nostra storia, e nel mio ingresso in azienda, nell’86. Prima di allora ho vissuto 12 anni a Bologna. Erano anni duri, anni di grande energia positiva ma anche distruttrice – ricordo, per esempio, l’inaugurazione della mostra «Arte di frontiera: New York graffiti» su progetto di Francesca Alinovi. Del resto, è sempre così: quando c’è il paradiso, c’è anche l’inferno. Ero attratta da molte cose e sviluppavo una ricerca multiforme. Così, quando sono entrata in azienda ho portato dentro le mie esperienze di vita, tra cui l’amicizia con Massimo Iosa Ghini, allora disegnatore di fumetti e studente di design radicale e architettura a Firenze. La nostra intenzione era di costruire un mondo nuovo senza concentrarci direttamente sugli oggetti, ma lavorando alle idee. Massimo era stato uno dei fondatori del «bolidismo», che prendeva spunto dal futurismo italiano ma anche dallo streamline americano: nella sua attenzione per il segno c’era già un’impronta artistica e il risultato è stato potente. Il mio secondo lavoro in azienda è stato con il designer giapponese Toshiyuki Kita, in Italia già molto influente, che mi aveva mostrato la sua tesi di laurea, un progetto di design organico. Mi interessava questa possibile esperienza, parallela al design che caratterizzava la scena italiana degli anni ‘80, in cui un oggetto di natura diventava archetipo di un oggetto funzionale. Poi c’è stato il lavoro con Ron Arad, ancora una volta senza cavalcare l’autostrada dell’Italian design, con cui abbiamo tradotto 15 sue sculture con l’industria. Tutto questo è avvenuto incrociando sentieri – non stavamo facendo un lavoro preciso, di stampo milanese – anche perché in quegli anni arrivavano al massimo della loro potenzialità tutti i movimenti, come il Gruppo Memphis e Alchimia, che attingevano molto dall’arte e proponevano finalmente il nuovo nel design, portando il segno al di sopra della funzione. Il mio lavoro di ricerca è sempre stato questo, lavorare con persone ai confini del mondo del design, ponendo il design a contatto e in dialogo con qualcos’altro.

Poi ancora artisti, fino all’istituzione del «Moroso Award for Contemporary Art» nel 2010…
Nel 2002 abbiamo avviato un’esperienza di contatto diretto con un’istituzione dell’arte, il Palais de Tokyo di Parigi che inaugurava l’anno seguente. Siamo diventati sponsor del museo dove abbiamo esposto l’opera di Michael Lin, prodotta nel 2003 in occasione del Salone del Mobile di Milano. Dentro il lavoro c’era anche qualcosa di nostro, qualcosa dell’azienda, e questo è stato un grande stimolo: ho capito che non bisogna aver timore di relazionarsi con l’arte, perché gli artisti hanno voglia di sperimentare, anche con produzioni industriali. Nel caso di Michael Lin, che è un’artista pop, la produzione industriale gli interessava in modo particolare, ma anche altri, come Tobias Rehberger, ne erano affascinati. Nel rapporto con artisti che hanno dimestichezza con la produzione dei loro lavori, si genera uno scambio grandioso. Avere a che fare con persone dotate di un’intelligenza speciale dà e lascia molto: ci si abitua a pensare in un altro modo, si apprende e si apprezza il lavoro di produzione dell’opera, che è gratificante e importante perché lascia un’esperienza indelebile. L’azienda non lo dimentica.

Come hanno risposto i lavoratori dell’azienda?
L’arte lavora sulle emozioni forti. Ogni esperienza con l’arte è dispendiosa, in termini d’investimento, tempo ed energie, ma è grandiosa, è un’esperienza umana indimenticabile. Dopo aver lavorato con artisti, alcuni dipendenti mi hanno detto: «Questo è stato il mese più bello della mia vita».
L’arte in azienda deve diventare patrimonio comune, altrimenti si perde nel tempo. Soprattutto, l’intenzione di lavorare con l’arte deve provenire dall’essenza di chi si sei, dalle scelte che compi, non può nascere sulla base di un progetto disegnato a priori per perseguire obiettivi di comunicazione. Questi, semmai, sono un risultato.

Oggi esponete la vostra collezione di opere d’arte nella mostra «Metamorphosis. Le collezioni Moroso fra design e arti visive» a Casa Cavazzini, la nuova Galleria di Arte Moderna di Udine, per celebrare i 60 anni dell’azienda.
La mostra è anche un omaggio a Martino Gamper, che è stato il vincitore della prima edizione del «Moroso Award for Contemporary Art», con l’esposizione della sua opera «Metamorphosis» da cui abbiamo attinto per il titolo della mostra. Tra Giugno e Settembre la mostra è stata presentata all’Hangar Bicocca di Milano, insieme a «Backstage. Il dietro le quinte» sulla storia del design dell’azienda, dove ho voluto raccontare tutto ciò che sta dietro un progetto di design. Ho cercato di dimostrare il valore della ricerca e di raccontare i modi con cui i diversi autori lavorano sulle idee, come nascono, come le sviluppano. Oggi la mostra è nella bellissima Casa Cavazzini, un gioiello anni ’30 affrescato da Afro Basaldella, dove abbiamo installato i lavori degli artisti che hanno vinto il Premio, quelli che sono stati menzionati, e alcune opere storiche come quella di Michael Lin, «l’iniziatore». Inoltre, abbiamo allestito tutta la collezione di Martino Gamper, che rappresenta il meraviglioso incrocio tra arte e design. In azienda Martino ha raccolto la materia, l’ha modificata e plasmata, rendendola un’opera d’arte. Per una settimana ha solo guardato e osservato i nostri materiali, gli stampi, i tessuti, gli schiumati di poliuretano espanso nei magazzini. Li ha scelti, li ha fatti a pezzi e ha creato nuovi corpi.

Avete pensato di dare una collocazione permanente alla collezione, anche in collaborazione con un’istituzione museale pubblica?
Il mio sogno, da sempre, è inaugurare un museo con la nostra collezione, alimentata dalle opere vincitrici del Premio. L’azienda è fatta di spazi di lavoro e ancora non sono riuscita a ricavare la sede giusta.
Per quanto riguarda le collaborazioni, abbiamo uno splendido rapporto con Andrea Bruciati, già Direttore Artistico della Galleria Comunale di Arte Contemporanea di Monfalcone e con aziende come illy. Siamo molto soddisfatti dell’apertura di Casa Cavazzini. Solo in un mese e mezzo la mostra è stata visitata da 6mila persone, soprattutto del nostro territorio.

Il territorio. Venezia e il Nord-Est si candidano a Capitale Europea della Cultura 2019. Il suo pronostico…
Se includeremo anche il Trentino Alto Adige, potremo vincere. Recentemente sono stata a Bolzano, dove ho potuto accertare che, nonostante la crisi, si continua a fare cultura molto seriamente. Teatri, gallerie e musei sono attivi. Non solo. Ci sono scuole disegnate da grandi architetti contemporanei, dove la bellezza viene assimilata fin da piccoli. Questa dovrebbe essere la norma, programmando i fondi pubblici in modo consapevole. In Friuli Venezia Giulia, per esempio, abbiamo utilizzato solo il 30% dei Fondi Europei per mancanza di progettazione, mentre il Trentino Alto Adige li ha impiegati al 100% puntando all’istruzione e all’educazione estetica, con una sana etica del lavoro.
Quello che mi ha colpito è proprio il caso della scuola disegnata da un grande architetto. In generale, in Italia, gli appalti pubblici vengono selezionati al minor costo. Una scelta strategica sbagliata che nel lungo periodo si rivela più dispendiosa. In Trentino adottano un metro di giudizio diverso, ponderando la valutazione del progetto al 70% per la qualità e al 30% per il costo di realizzo.
In un momento di crisi, non possiamo fare investimenti a caso, ma dobbiamo scegliere con cura le azioni strategiche da compiere, valutando meglio i progetti, comprendendo le potenzialità intrinseche di un territorio e decidendo in base alle priorità. Quello che invece oggi vedo è distruzione, come la grande Scuola di Restauro di Roma, che si è estinta. La cultura è la cosa che non dovrebbe mai essere dimenticata, perché è il futuro, è il patrimonio genetico, è l’organo riproduttivo della nostra società. Senza cultura, prepariamo una generazione futura sterile. Questo è follia.
Quello che vedo come obbligo morale è che il pubblico faccia cultura, perché i privati non possono prendersi la responsabilità di acculturare il territorio, ma certamente possono contribuire. Un modello virtuoso è rappresentato dagli Stati Uniti, dove l’intervento dei privati è incentivato da uno sgravio fiscale importante. Partiamo da qui.

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[1] Curata Andrea Bruciati, Patrizia Moroso e Marco Viola, la mostra presenta opere di Tobias Rehberger, Michael Lin, Francesco Simeti, Andrea Sala insieme ai vincitori e finalisti del «Moroso Award for Contemporary Art»: Martino Gamper, Dragana Sapanjos, Ettore Favini, Anna Galtarossa, Daniel Gonzalez, Luca Trevisani, Luca Pozzi, Gabriele De Santis, Andrea Mastrovito, Loris Cecchini, Christian Frosi, Tomas Saraceno, David Adamo, Christian Eisenberg.