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Cento di questi Sottsass! In Triennale l’architetto del gioco e del progetto “al dente”

  • Pubblicato il: 15/09/2017 - 09:36
Autore/i: 
Rubrica: 
FONDAZIONI PER LA CULTURA
Articolo a cura di: 
Amerigo Nutolo

La mostra di Triennale su tutta la sua produzione, a cura di Barbara Radice, apre in questi giorni e i lati meno noti dell’architetto, risaltano a cent’anni dalla nascita. Sottsass: un respiro nuovo nel mondo del design internazionale e italiano – e nel modo di vedere il mondo. Un uomo che con ogni mezzo esalta la l’amore per la relazione con ciò che lo circonda, attraverso la luminosa opacità del gioco
 

Sarà ricordata come una mostra tra le più belle dell’anno, quella di Venezia. Non parlo di Damien Hirst o della Biennale d’Arte – per cui è lecito avere dubbi sul too big to fail – ma della mostra sull’opera in vetro di Ettore Sottsass, a cura da Luca Massimo Barbero, per le Stanze del Vetro, progetto sull’arte vetraria contemporanea. A cent’anni dalla sua nascita, ha emozionato come solo la luce sa fare, il gioco di colori che l’autore ha potuto infondere a una materia così sensibile da incandescente, quanto fragile nella sua purezza finale – “simile alla vita” – imperfetta e suprema. Più di 200 pezzi di tutte le epoche in cui Sottsass s’è cimentato con il vetro, in cui lo si vede giocare col cristallo, togliergli peso e restituirgli morbidezza, facendone fiorire i riflessi; spaziare dalle forme rinascimentali sovrapposte e ricomposte nei Memphis, all’uso – fuori dalle convenzioni muranesi – di colle industriali, fino all’unione di materiali sintetici, o marmi, a elementi in vetro, all’unione di questi ultimi con fili metallici. E c’è la produzione di kachinas: fantastici ibridi di lari, avatar di forze naturali, cronopios cortàzariani, cui il vetro dona magia e intangibilità; o i Capricci – il nome lo dichiara – al cui centro c’è la pratica re-immaginativa che spinge il vetro ai suoi confini cromatici, al disequilibrio, emancipandolo dalla gravità (il pensiero vola ai Quiet Afternoon di Fischli & Weiss) su steli e basi d’acciaio; i pezzi ispirati a forme/versi di uccelli o evocativi di sensazioni orientali; gli stessi acquerelli, il cui scopo era esprimere la resa desiderata ai mastri della fornace; tutto fa vedere attraverso il vetro lo spirito di Sottsass, l’amore per l’anima delle cose.
 
Ma arriva la scoperta del mondo. There is a Planet, la mostra della Fondazione Triennale di Milano, a cura di Barbara Radice, compagna di vita e di avventura lavorativa della seconda metà del percorso di Sottsass. Il titolo è preso in prestito da un progetto di pubblicazione mai completato – recuperato da Electa e presente anch’esso in mostra. Le cinque sezioni prevedevano una selezione di fotografie tratte da decenni di viaggi dell’architetto, che associate a alcuni scritti originali tracciavano una narrazione: il pianeta, la vita sul pianeta, costruirvi case, l’interno delle case, ingressi, finestre e scale delle case. Con esattezza fiabesca Sottsass descrive un’antropologia, una cosmogonia dello spazio, una fenomenologia della relazione fra esso e l’uomo: dove l’uomo all’inizio è assente e poi visto nel suo abitarlo, costruirlo, saturarlo, rigenerarlo dall’interno per non perdervisi e per proteggersi da esso, dal suo sfuggire senza fine. “È sempre molto complicato sapere dove si sta.” dice Sottsass, prima dell’ultima parte, mancante.
 
L’altro nucleo d’immagini, inedito, dall’ironico titolo picassiano, Le Donne di Antibes, raccoglie i ritratti femminili di bagnanti del centro provenzale. L’obiettivo, stretto sui soggetti, fa entrare poco del centro un tempo amato dagli artisti e poi gentrificato, in stile Cinque Terre, a favore di élite e divi da rotocalco. “Non capisco perché si continui a fotografare donne nude.” confessa Sottsass “L’unica spiegazione è che qualcuno potrebbe aver voglia di penetrare la apparizione del mondo, la apparizione miracolosa della vita. [...] La voglia di perdersi per 1/500, 1/1000 di secondo in tutto ciò che improvvisamente appare.” E’ difficile credere che Sottsass, a modo suo, non fosse pervaso proprio dall’inquietudine cezanniana di una ricerca infinita di regole diverse per far apparire quella vita davanti a sé. Questi scatti in bianco e nero citano provocatoriamente le tradizioni dei baigneurs evocando l’ironia del cinema di quei primi anni ’60, in equilibrio fra denudamento dei modelli borghesi, critica di quelli culturali e della società dei consumi e riscoperta dell’istintività pura, basti ricordare la Notte di Antonioni, Comizi d’amore di Pasolini, di Fellini o La vita agra di Bianciardi/Lizzani per individuare il periodo di cui parliamo.
 
La mostra in cui questi due progetti fotonarrativi sono collocati, è uno dei più vasti e inattesi panorami sulla produzione di Sottsass mai visti finora, allestita proprio da Michele De Lucchi (qui un’intervista con Sottsass) e Cristoph Radl. Barbara Radice ha rivisto tutti i materiali disponibili sulla produzione e la vita dell’architetto per più di un anno, per tentarne una sistematizzazione narrativa, attraverso nove titoli che si rifanno ai suoi scritti e altrettante sezioni di opere: qualche centinaio e di ogni sorta. Ma Silvana Annichiarico direttrice di Triennale Design Museum ha parole chiare: Impossibile imbrigliare, ordinare o catalogare un uomo come lui. […] Ci sono architetti e designer che inseguono per tutta la vita un sogno di limpidezza e di trasparenza, e si ostinano a portare la razionalità del progetto nel confuso disordine del mondo. Sottsass apparteneva a un’altra specie: a quella di coloro che non vedono la chiarezza del progetto o del disegno contrapposta all’oscurità del mondo, ma che anzi sentono come e quanto il progetto e il disegno facciano parte della medesima oscurità, e siano inevitabilmente implicati in essa.” Se è la limpida opacità il marchio di fabbrica di Sottsass, allora il suo tentativo è quello di far toccare l’inafferrabile delle cose, della vita fra esse: il suo segreto è, forse, il gioco, con cui sottrae il reale a se stesso.
 
Se disegna una libreria possiamo stare certi che sarà una non-libreria, una libreria che si prende gioco di noi, delle proprie regole, funzionando da libreria senza apparire tale: Sottsass sta inventando nuove categorie per lo stesso uso dell’oggetto. Lo spirito di Sottsass – e di Memphis è che alla fine cambierà il nostro modo di vivere con la libreria: sono le strutture che tremano.  La libreria fa finta di non esserlo e noi mentre appoggiamo un libro su di essa siamo sorpresi dal non-mettere-un-libro-su-una-libreria. Dice Gregory Bateson nella Teoria del gioco e della fantasia (1954) che c’è gioco quando le azioni che in questo momento stiamo compiendo non denotano ciò che denoterebbero le azioni "per cui esse stanno". Un esempio che usa per parlare di cos’è il gioco è quello dei morsi tra animali che rimandano al morso vero senza denotare mai quel che il morso vero denota, cioè l’aggressione. Dov’è il gioco? Nel compiere certe azioni usuali con un oggetto che di volta in volta è piegato a svolgere quella certa funzione, ma in modo improprio per le nostre categorie, contesti e consuetudini.  Il design ci imprigiona, o libera, nel suo gioco: l’oggetto ospita il nostro gesto – che non avremmo pensato di fare con esso – nel suo frame; e il fatto di farlo con normalità, sposta il senso della relazione, rende speciale l’azione usuale. L’oggetto muta la cornice, il frame in cui il gesto è racchiuso. Sottsass è come quei bambini che, dice Bateson, con le parole degli adulti – per non obbedire – usano il trucco di inquadrarle in cornici interpretative ogni volta diverse in modo da circondarle e impedirgli di restare quello che sono – e dover rendere conto di esse. Sottsass si svincola dagli aspetti normativi del progetto, li attraversa come burro, mette in dubbio “le categorie logiche all’interno delle quali si sviluppa l’interazione” (così Bateson in Questo è un gioco?).
 
Così Sottsass fa design salvandoci dalla violenta, convenzionale, sottile, sicurezza del design di quelle cose con cui riempiamo le nostre abitazioni al fine di trovare “una protezione dalle incognite, […] un posto dove stare, dove potere esistere”  alle condizioni di quelle “maggioranze […], ammassi nebulosi di persone alle quali il progetto o anche i progetti delle protezioni [le costruzioni umane n.d.r.]  vengono consegnati più o meno precotti, come quasi sempre precotti sono gli spaghetti nei ristoranti di seconda, terza o quarta categoria. Spaghetti più o meno precotti, raffreddati, surgelati…spaghetti schifosi.” Così Sottsass scrive, in There is a Planet, di voler viaggiare oltre questi terreni, “verso quel profumo speciale […] di salsa di pomodoro fresco, con basilico e aglio appena toccato, della Trattoria dell’Aragostadove “il cognato del signor Amedeo, Ciccillo, aveva il preciso incarico di fermare l’acqua bollente della pasta, non al minuto, ma al secondo.” E aggiunge: “Loro forse sapevano dove erano.” Progettare al dente non è customizzare  ma sapere dove si è e conoscere il momento. A 100 anni dalla nascita, Sottsass, è ancora tra noi, più scustomizzato che mai. Andiamo a salutare le sue creature – e a ricordarci come si gioca sul serio.
 
 
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Ph:  Libreria Carlton, design Memphis, 1981, Foto di Aldo Ballo (courtesy).