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Bill Viola

  • Pubblicato il: 11/05/2012 - 11:20
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Ada Masoero
Bill Viola. Foto © Kira Perov

Varese. A cinque anni dalla partecipazione alla Biennale di Venezia e a quattro dalla retrospettiva di Palazzo delle Esposizioni a Roma, Bill Viola torna in Italia con una mostra che si annuncia imperdibile per l’osmosi, davvero rara, tra la sua opera, fatta di ombre e di luce, e il luogo che la ospita, la settecentesca Villa Panza, donata al Fai dai collezionisti Giuseppe e Giovanna Panza di Biumo: un regno della luce, questa, nel giardino affacciato su un panorama esteso fino alle Alpi, come negli interni, bagnati da una luminosità chiara e abitati dalle opere monocrome e minimaliste, anch’esse intessute di luce, della collezione Panza. Dal 12 maggio al 28 ottobre nelle Scuderie e in alcune sale della villa, riunite nella mostra «Bill Viola per Villa Panza. Reflections», trovano posto undici videoinstallazioni datate dagli anni Settanta, quando, poco più che ventenne, l’artista (New York, 1951) fu uno dei fondatori del linguaggio sperimentale della Videoart, fino a oggi. Abbiamo intervistato Bill Viola alla vigilia della mostra.

Bill Viola, con quali criteri ha scelto le opere per la mostra?
Il progetto della mostra è stato realizzato da me con Kira Perov (la moglie, direttore esecutivo del Bill Viola Studio, Ndr) e Bobbi Jablonski, il nucleo del Bill Viola Studio: ci siamo concentrati soprattutto sugli aspetti architettonici e ambientali della villa e sulla loro influenza sul «viaggio» in cui volevamo coinvolgere il visitatore. Nelle Scuderie, i cui spazi sono più ampi, l’opera centrale è il «Nantes Triptych» (1992), un’installazione che racchiude in sé i temi centrali della mia ricerca sin dai primi anni Settanta: la nascita, la morte, la trascendenza. Altri lavori esposti in questi spazi affrontano i temi della purificazione, della dissoluzione e della rinascita, come «The Reflecting Pool» (1977-79), in cui si assiste a un nuovo inizio del ciclo della vita. Nella villa, dove le sale sono più piccole, abbiamo esposto opere figurative della serie «Transfigurations», del 2007-08, e un corpus di lavori che si servono dell’acqua come di una soglia tra la vita e la morte. Ci sono poi paesaggi, come «The Darker Side of Dawn» (2005), un’opera imponente che si rivela in un tempo appena percettibile: tutte opere che entrano in risonanza con il contesto ambientale della villa.

La Videoart non è un linguaggio artistico facile per il grande pubblico, che spesso si annoia. Questo però non accade con i suoi lavori: quando crea un’opera lei cerca un’empatia con l’osservatore?
In generale l’impulso per le mie opere scaturisce dal cuore. La gente capisce che le immagini che sta vedendo non giungono dalla mente razionale ma da un luogo diverso. Ecco che allora gli osservatori sono in grado di connettersi con l’opera e, insieme, con se stessi. Tutti ci poniamo le stesse domande sull’esistenza, le stesse che io esprimo nel mio lavoro. E, nel tempo, ho capito che sono le domande e non le risposte a generare la forza che ci conduce avanti.

In molte sue opere lei ha reso omaggio all’arte italiana del passato. Quanto ha contato e quanto conta per lei l’arte antica, e soprattutto quella italiana? E a quali altre culture visive si sente particolarmente legato?
Tutti gli artisti sono connessi al passato, che lo riconoscano o no. La continuità della creazione sin dalle origini dell’uomo è un filo ininterrotto. Il tempo che ho trascorso a Firenze nei primi anni Settanta ha avuto una fortissima influenza sul modo in cui vedo la luce, il colore, lo spazio e il tempo. Mentre lavoravo a «The Greeting», per esempio, ero attratto dalla meravigliosa composizione delle quattro figure della «Visitazione» del Pontormo e, ovviamente, dai suoi colori sublimi. Non solo, ma fu allora che acquisii la profonda consapevolezza del posto occupato dall’arte sia nella cultura «alta» sia nella vita quotidiana. Sono però stato influenzato anche da altre culture: Kira e io abbiamo vissuto per un anno e mezzo in Giappone all’inizio degli anni Ottanta e lì l’arte del Buddhismo zen e gli insegnamenti del maestro zen Daien Tanaka hanno avuto un impatto fortissimo sul mio lavoro. Penso, per esempio, a un’opera come «The Stopping Mind» del 1991.

Ha mai incontrato Giuseppe Panza di Biumo?
Ho avuto la grande fortuna di incontrarlo in più occasioni. Era un collezionista sagace e aveva un occhio acuto e una grande fiducia nel potere e nel significato dell’arte contemporanea. Attraverso la sua collezione ha supportato la creazione di molte opere importanti, specialmente di artisti che lavorano sulla luce e lo spazio, di segno concettuale più che fisico. L’ultima volta lo incontrai al MoCA di Los Angeles, quando una grande parte della sua collezione venne destinata a quel museo.

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da Il Giornale dell'Arte numero 320, maggio 2012